Leo Ravazzi
Gli anni castellamontesi
Correva l’anno 1922, quando Castellamonte ebbe la soddisfazione di veder riconosciuta , a livello ministeriale, la scuola professionale serale di disegno, sorta nel 1902 su iniziativa della Società Operaia, con i nobili scopi di elevare le conoscenze tecniche dei lavoratori favorendone l’emancipazione.
Il decreto governativo n.165 11 maggio ’22 ne stabiliva l’elevazione al rango di Regia scuola d’Arte e ne sanciva l’intitolazione al concittadino Felice Faccio, che con una cospicua donazione ne aveva favorito l’istituzione.
Al generale compiacimento di Autorità e cittadini si associarono gli industriali dei locali stabilimenti ceramici, che giustamente intravidero la possibilità di avere a disposizione dei giovani con un’adeguata preparazione da impiegare nelle proprie manifatture.
La scuola iniziò la sua vita ufficiale nel 1923 con l’istituzione delle lezioni ad orario diurno; nell’anno scolastico 1924-25 fu introdotto l’insegnamento del disegno ornamentale e della plastica e veniva effettuata una cerimonia inaugurale alla presenza del Ministro della Pubblica Istruzione Teofilo Rossi.
Il primo direttore fu il prof. Augusto Baitello e i corsi volti alle specializzazioni di Falegnami-ebanisti, edili e ceramisti.
Con l’inserimento della scuola nell’ambito istituzionale delle Regie Scuole d’Arte, essa per prima, ma di conseguenza anche l’ambiente culturale-artistico castellamontese, beneficiarono dell’arrivo di insegnanti-artisti di notevole spessore, che contribuirono ad aprire gli orizzonti culturali cittadini, sino ad allora un po’ chiusi e provinciali
Uno di questi fu Leo Ravazzi, giunto a Castellamonte nel novembre 1925 e rimasto nella nostra città sino al 1936. Per 11 anni apportò alla Scuola d’Arte un notevole contributo artistico.
Gli anni castellamontesi di Ravazzi furono proficui anche per lui: da noi affinò il suo eclettico senso artistico, che si concretizzo in numerose opere, ma soprattutto a Castellamonte sviluppò la passione per la ceramica, che fece di lui un apprezzato artista del settore.
Leo Ravazzi, penultimo di nove figli di un ufficiale di carriera, nacque l’11 agosto 1899 ad Alessandria nel palazzo paterno di Piazza Garibaldi.
Costretto dalla professione del padre a continui spostamenti, farà le elementari a Genova e Como, il ginnasio tra Como e Cremona.
Intrapresi gli studi classici, si accorse ben presto di non aver scelto la via giusta: sui margini dei quaderni, accanto alle declinazioni latine, non faceva che disegnare teste, profili, cavalli.
Abbandonato il ginnasio si iscrisse alla scuola “Ala Ponzoni” di Cremona dove apprese le prime nozioni di arte e dove lo sorprese la guerra.
Arruolato nell’artiglieria pesante, si ammalò di “spagnola” che superò solo dopo un lungo ricovero in un ospedale da campo.
Dopo il periodo bellico e la morte del padre avvenuta nell’inverno del 1920, Ravazzi, si iscrisse all’Istituto d’Arte di Venezia dove incontrò Vanella una compagna di scuola che non tarderà a diventare sua moglie.
A Venezia il giovane Leo fu pervaso dal sacro fuoco dell’arte, che non era inferiore a quello dell’amore che provava per la giovane fidanzata.
Sognava un futuro di artista, uno studio e la libera professione che gli garantisse un’attività priva di condizionamenti.
Espose per la prima volta alla Mostra artistica di “ Cà Pesaro” al Lido presentando due sue prime opere: un ritratto del fratello Umberto, ed un altro del pittore Scarpa suo amico.
I genitori di Venella, la sua fidanzata, la pensavano però in modo diverso e non intravedevano nella sua attività un po’ boèmien, la sicurezza economica che avrebbero desiderato per la figlia ed erano restii al consolidamento della loro relazione
Questo motivo era causa di continue tensioni con la famiglia di lei, così quando nell’autunno del 1925, il direttore dell’Istituto d’Arte veneziano, che tanto lo stimava, gli propose di occupare, senza concorso, un posto di insegnante per la plastica nella scuola d’Arte di Castellamonte, Ravazzi, profondamente innamorato della fidanzata Vanella rinunciò, per lei, ai sogni della libera arte e accettò l’incarico, pensando essere questa la via più sicura per arrivare al matrimonio.
ARTISTA IN CASTELLAMONTE
La prima lettera che Ravazzi scrive alla fidanzata rimasta a Venezia è datata novembre 1925:
“ …Castellamonte è un bel posto, aria buona, bel panorama, tranquillo, fatto per riposare, ma la scuola….i ragazzi non hanno la minima nozione del disegno, unica mia consolazione è che mi resta del tempo libero e che il direttore mi ha dato un locale dove potrò lavorare per conto mio, e poi qui ho il mio violino che mi farà compagnia.
Pur sentendomi isolato dal mondo e dagli artisti, spero di trovarmi bene perché la tranquillità è fatta per me, io penso, riposo, perché sono vicino alla natura.
Ravazzi prende domicilio nella casa Barengo in via Romana n°6 in un appartamento di proprietà del nonno dell’arch. Dario Berrino che ancora lo ricorda come un tipo un po’ chiuso, sempre assorto e pensieroso.
Nelle ore libere scolpisce usando come modelli amici e scolari.
Cerca di avvicinarsi ai suoi ragazzi e siccome sono un po’ chiusi e rozzi, cerca di aprirne gli animi verso un mondo a loro ignoto, indirizzando il loro gusto verso il bello e l’essenza delle cose.
Dirige il laboratorio di scultura, ma cerca di comunicare le sue idee anche al capo d’arte del laboratorio di falegnameria Ottaviano Stella ed ha una particolare predilezione per un sacerdote che insegna ed è persona brava ed intelligente: Don Severino Bertola.
Nel 1926 in una lettera a Venella scrive:
“Sono calmo e raccolto, ho già fatto tre piccoli lavori, molto accurati ed io mi sfogo d’immettere nella materia qualcosa che non ha, mi sforzo di entrarci dentro, di farla rivivere, tutti i miei sforzi sono questi: investire i miei lavori di qualcosa che non si può toccar con mano, e provo e riprovo ed escogito tutti i mezzi.”
E’ questo il periodo wildtiano. Egli ammirava molto il grande scultore Adolfo Wild che tanta spiritualità metteva nelle sue opere e sapeva lavorare il marmo in maniera incomparabile.
Il primo lavoro su commissione è una tomba nel cimitero di Asti per la famiglia Mondo, suoi cugini.
In una lettera dell’aprile 1926 scrive:
Io non vorrei essere uno di quegli artisti riproduttori, ma di quelli che si servono dei loro mezzi per dire qualcosa e per dare un pò di espressione alle linee e alle cose, io vorrei che il mio lavoro fosse sempre la manifestazione del lavoro mentale, altrimenti sarebbe un lavoro manuale e basta.
Intanto porta a termine due lavori in marmo, “Il condottiero” e il “Cristo morto” che, con un busto in gesso di Ottaviano Stella, manda all’Esposizione ”Bevilacqua La Masa” che si era aperta al Lido di Venezia.
La lontananza dalla sua fidanzata Venella è sempre più intollerabile, così decide di sposarsi e portarla a vivere a Castellamonte.
Esegue personalmente i disegni della sua mobilia, va a cercare il legno, dirige l’artigiano falegname, nell’esecuzione.
Cominciano così le sue esperienze su quella che sarà poi un’attività sia pur marginale, ma che gli darà, anche in questo campo delle soddisfazioni, perché in seguito eseguirà, su ordinazione di ricchi torinesi, intere stanze su suo disegno.
Una serie di mobili, progettati da Ravazzi verranno realizzati nei laboratori di Merlo e Nida di Rivarolo ed esposti nella loro rivendita.
Da un articolo apparso sul “Progresso Canavesano” dell’epoca:
I tavoli, sedie, poltrone, sofà, tavolini da tè, credenze e scrivanie, rivelano sotto la linea di un disegno in perfetto stile ‘900 prerogative pratiche, portate dall’attualità dei tempi: c’è un salotto che tralasciando ogni precedente concetto stilistico, s’informa completamente al nuovo, tutto lineare, come dai saggi ammirati a Torino in occasione dell’ultima esposizione nel Palazzo degli Architetti.
E’ un abbandono di tutte le maniere passate per giungere nel complesso a quell’effetto essenzialmente decorativo e nell’insieme pratico, giocato sui colori e sulle luci che l’ambiente moderno deve necessariamente curarsi per distinguersi in un gusto prettamente nuovo, lungi da goffaggini e denso di armonie allettatrici.”
Nel 1927 comincia ad esporre alla Promotrice di Torino ( una costante per tutti gli anni della sua permanenza in Piemonte) .
Con l’arrivo della moglie, si trasferisce in un più confortevole alloggio sito nel palazzo, da poco terminato, di piazza della repubblica, sopra l’allora ristorante Savoia.
Il ricongiungimento con l’amata Venella, lo predispone ad una maggior tranquillità d’animo.
Nel tempo libero dagli impegni della scuola e dall’attività artistica con la moglie compie lunghe passeggiate, si recano spesso sulle colline dietro il castello, un luogo amato dalla coppia con i pini, le querce e al tempo pulito e curato: quindi, sicuramente più attraente del giorno d’oggi.
Sovente si fermano a guardare un gregge che pascola nella zona, e Ravazzi ricava schizzi che utilizzerà per un bassorilievo in marmo ”La pecora” che invierà ad un concorso a Biella, città della lana.
Sono di quest’epoca molti ritratti dei suoi alunni, di persone amiche e una delicata figura di donna che espone alla Cardinal Ferrari a Milano.
Molti critici hanno definito Ravazzi un mistico ed in un certo senso lo era. Anche se andava solo alla Messa nelle feste comandate e frequentava poco i Sacramenti, “ era un cristiano che osservava le leggi di Dio perché Dio era in lui, lo sentiva, e gli era presente in tutte le sue azioni.” ebbe a scrivere la moglie.
Era affascinato dalla figura di S. Francesco, il quale ispirerà numerose sue opere, una bellissima scultura del Santo orante la esporrà alla permanente di Milano nel 1932.
Questo “ S. Francesco” era stato scelto da una giuria rigorosissima: su 1400 opere ne furono accettate solo 300. Testimoni oculari dissero che piacque molto all’allora Vescovo di Milano Card. Schuster che più volte si soffermò a guardarlo ammirato.
Cominciano anche le amicizie, il suo studio è sempre visitato. Celeste Ferdinando Scavini è uno dei suoi ammiratori. E’ un giovane che si appassiona d’arte, scrive articoli ed ha a Rivarolo una rinomata Fotografia d’Arte: sarà il suo fedele fotografo degli anni canavesani.
Colto, gentile nel tratto, buon parlatore, gli porta sempre a conoscere gente di lettere, d’arte, di teatro.
Piero Mandelli è invece l’amico violinista, grande organizzatore di concerti alla Casa della Musica, onore e vanto di Castellamonte, che gli fa conoscere musicisti di fama i quali appagheranno la sua continua sete musicale.
Alla filarmonica, Ravazzi regalò un busto di Beethoven molto ben riuscito.
P.F. Scavini sul settimanale “La provincia di Aosta” scrive di lui:
“Leo Ravazzi artista delle grandi risorse, giovane che ha davanti a sé il più roseo avvenire. Mi accontento di pubblicare due fotografie che riproducono due lavori del giovane maestro. Da questi due lavori (Beethoven e il Condottiero) noi abbiamo l’idea di quale e quanta sia la bravura.
Lo stile di Leo Ravazzi nella sua arte par quasi miracolo, come la bellezza di quel S. Luigi che giace nel mezzo della sala di lavoro, in attesa di essere riprodotto nella sua dolce mestizia, nel bianco marmo e la non minore bellezza del viso di Giovanna d’Arco, che sembra voglia muovere la bella bocca e tremolare le pupille all’osservatore divenuto come affascinato alla vista di lei.”
Il 18 marzo del 1928 nacque il figlio Antonello e Ravazzi si cimenta in un’altra esperienza, esegue una xilografia annunciante la nascita del figlio. Ne riuscì una partecipazione originale e garbata che piacque molto e sarà il principio di un’altra attività che gli farà fare in seguito delle buone xilografie.
Passano gli anni ed è instancabile: sculture in gesso, in marmo, in bronzo, in terracotta, ormai lasciate le orme wildtiane per seguire le scuole di avanguardia, pur mantenendo un suo stile personale, cominciò anche i suoi primi lavori in ceramica della quale sarà entusiasta e, in seguito diverrà un maestro.
Un critico dice di lui:
“ Passa le sue giornate a Castellamonte e ognuna di queste tesa, a sempre più penetrare il mistero e la cavità della massa e della forma per le raffigurazioni ideali. Innamorato come era della linea. Tutto in lui si plasma idealmente e ogni idea si fonde nel groviglio delle prescelte.
Tesoreggia in questo modo le maturazioni del domani; Il concorso quotidiano del bello che in lui si accumula, l’accresce nello studio e nella ricerca, si che l’incontentabilità affiora ogni qualvolta un suo lavoro è posto a compimento. Più volte lo si sorprende a dubitar di sé ed ad ondeggiare in un’autocritica amara e severa per spronarsi a salire alle altezze che cerca con ogni lena a raggiungere.
Wild lo sbigottisce, sente la potenza del Maestro e il culmine inarrivabile e lo abbandona per la ricerca più aderente alla propria personalità e alla maniera sua che gli detta dentro, per manifestarsi lungi da ogni scuola e affermarsi con prerogative proprie.
Dotato di un’anima sensibile, non complicata, piana, suadente, e leggermente mistica, ecco che dalle dita lunghe e nervose, fioriscono marmi dove ogni tocco è sobrio, dove ogni linea è stupore.
Vogliamo alludere a “L’Annunciazione” che Lucio Ridenti ha fatto sua.
Qui il candore e l’atmosfera che vi circola è pari all’ingenuità di certe tele che rispondono ai nomi più belli del nostro Rinascimento e la tecnica si dispose al sentimento religioso così da rendersene magnifica interprete, informando l’opera tutta di semplicità concettosa nel cospetto del messaggio angelicale.
In verità qui la creta si è resa docile al pollice perché l’arte potesse ancora una volta segnare una tappa accanto alla purezza sublime del misticismo che vince ogni parola”.
Nel soggetto religioso Leo Ravazzi raggiunge una raffigurazione sensibilissima. Sono di questo tempo le opere: “S. Francesco morto”, una “Donna con Bambino”, “L’Arcangelo Gabriele” di grande spiritualità.
Intanto le Mostre si succedono: Promotrice di Torino, Biennale di Venezia, Mostra internazionale di Arte Sacra a Padova dove una grande statua della vergine benedicente viene richiesta per due anni consecutivi, alla Internazionale d’Arte Cristiana a Milano espone un “Arcangelo Gabriele”, ne parlano parecchie riviste.
Realizza una personale a Rivarolo, un’altra a Castellamonte presentata dall’amico carissimo Alessandro Favero professore all’Università di Cluj in Romania, dotto e cristiano fervente con il quale si intrattiene spesso su questioni religiose e la cui morte avvenuta molto presto lo lascerà addoloratissimo.
Ravazzi esegue anche molti altari e tombe tra le quali una al Monumentale di Milano (Famiglia Pozzi). A Castellamonte cura la realizzazione della tomba della famiglia Gallo, posta all’inizio del porticato. Ancora oggi si può apprezzarne l’elegante semplicità della ceramica e del ferro forgiato.
Nel 1933 l’Istituto D.Romana allestisce una cappella al suo interno, ricavandola da locali in disuso: Ravazzi esegue i disegni degli interni, si occupa dei banchi, delle porte, dell’altare ed esegue un bel crocifisso. Il prof. Giorgio Baitello, anche lui insegnante della scuola d’Arte si occupa dei dipinti, mentre don Severino Bertola dirige i lavori. La cappella dedicata al Sacro Cuore verrà alla fine degli anni ‘70 abbattuta assieme al vecchio edificio.
L’opera più importante che Leo Ravazzi lascerà a Castellamonte è sicuramente il fonte battesimale della chiesa parrocchiale realizzata nel 1931.
Essa è costituita da una bellissima vetrata a colori rappresentante il “Battesimo di Gesù”. Quest’opera è il frutto di un nuovo esperimento, poichè si è cimentato in un lavoro assai arduo. Ma anche questo riesce meravigliosamente: il disegno scultoreo e l’indovinatissima gamma di colori, rilevano subito una conoscenza non comune del disegno figurativo.
Il battistero è chiuso da un cancello in ferro battuto di suo disegno e magistralmente eseguito dal fabbro Ernesto Bertola
Completa il tutto, un armadio con tarsie che rappresentano episodi biblici, realizzato da Ottaviano Stella.
Anche lo scrivere era per lui necessità: manda articoli ai diversi giornali esprimendo il suo pensiero sull’arte del mobile, sull’arte sacra, sull’arte funeraria, pensieri all’acido corrosivo, come lui li definisce, ma pensieri che piacciono, che vengono discussi ed accettati dagli onesti come verità.
Molte riviste in seguito gli chiederanno collaborazione. Scrive su L’Antologia dei giovani scrittori anche racconti un po’ astratti in cui colpisce soprattutto la immediata trasposizione del pensiero che li rende originali.
Altra scoperta di quel tempo: una sua tecnica speciale nel procedimento del disegno a colori per cui riesce ad ottenere dei bellissimi effetti di chiaro e scuro in cui le figure sembrano stampate.
L’Editore Frassinelli ne è entusiasta e per un suo libro di nuova edizione “La caduta del sole” gli ordina 200 copertine con relativa custodia che esegue tutte a mano. Sarà una novità e piacerà moltissimo.
Inoltre si diletta a fare dei veri e propri campionari di carte dagli svariati e complicati disegni a colori, sempre con lo stesso procedimento.
Queste le sue attività del periodo castellamontese, ma intanto nella nostra città impara ad apprezzare un elemento per lui nuovo, sul quale trasfondere il suo senso artistico: l’argilla.
A poco a poco viene affascinato dalle nostre terre argillose e dalle varietà offerte dalle nostre cave.
Realizza numerose statue, molte oggi di proprietà di castellamontesi; suo anche il leone di S.Marco realizzato in refrattario posto alla sommità della scalinata della ex caserma dei carabinieri.
Interviene nel dibattito sulla crisi dell’industria ceramica a Castellamonte che in quegli anni si manifesta con la crisi della stufa e delle produzioni tradizionali.
I suoi pareri sono originali, rivoluzionari, a tratti impietosi e di aperta critica ai modi di intendere e di produrre la ceramica a Castellamonte.
In un lungo articolo apparso il 7 febbraio 1933 sul settimanale “La provincia di Aosta” che a di fatto sostituito la tradizionale “Sentinella del Canavese” Ravazzi che ha aderito alle avanguardie artistiche dell’epoca si scaglia contro quelli che definisce “passatisti” che continuano cioè a realizzare e produrre secondo canoni ottocenteschi ormai superati dal vento innovatore che soffia anche nell’arte.
Snobba i prodotti di una fabbrica rinomata, specializzata in lavori artistici e statue in terra cotta: “ Renzo e Lucia, Garibaldi che fa la faccia feroce, Umberto I, Cavour, ecc. e poi statue grottesche di storpi e sciancati che formavano (e formano) la passione dei passatisti possessori di ”giubilièri” del Canavese e servivano ad adornare i loro giardini di gusto romantico-decadente-provinciale: di cattivo gusto insomma.”
Critica i produttori di stufe che continuano a proporre modelli tecnicamente, ma soprattutto artisticamente obsoleti…”la finezza esagerata di certe stufe dove il modello in plastica viene inteso come un ricamo, di certi lavori “finiti” (leziosi) contro la natura della materia che si lavora e del gusto 1848 di detti lavori…..”
“ …ho visto vasi colossali in terra cotta che sono un controsenso di acrobatismo, dove il senso della materia è smarrito..”
..”è difficile far comprendere che la prima bellezza è quella della materia; che è più bello un mattone duro con delle qualità particolari che un vaso (per esempio) di terra tenera, ma decorato però con un fregio( in rilievo) di nespole, o pomi, o carote (a cosa servono?).
Secondo Ravazzi, la ceramica a Castellamonte potrebbe avere uno sviluppo architetturale, dovrebbe costruire delle cose tali che possano servire all’architetto moderno, alle moderne costruzioni.. La ceramica modernamente intesa, secondo lui, può avere un’infinità di applicazioni nel campo dell’arte applicata: da un pezzo plastico, da una mattonella da pavimento, ad una incorniciatura di finestra, vi è tutta una serie di possibilità.
Riprendere l’uso della ceramica architettonica, vorrebbe dire riprendere una tradizione (che da noi ebbe un grande sviluppo) senza ricopiarla, ma liberamente interpretarla secondo la sensibilità e le esigenze estetiche moderne.
“ Una bella stufa non è bella solo per la vernice “tipo Germania”, ma deve essere bella come proporzioni e può essere bella anche senza certa plastica “da pasticcere” e se plastica ci deve essere, deve essere appropriata, geniale e garbata ed affine al processo tecnico trattato. La stufa così fatta potrà stare benissimo in quelle case abitate da chi è esigente in fatto di arredamento.”
Questi pensieri teorici, verranno tradotti in realtà con la realizzazione di due stufe esteticamente rivoluzionarie fabbricate per servire e arredare la costruenda “Casa Littoria”.
Oggi le possiamo ammirare nell’esposizione di Palazzo Botton.
Leo Ravazzi, figlio del suo tempo, e pervaso dallo spirito innovatore, sembra voler scuotere i castellamontesi dal torpore, quando afferma: “Siamo stufi di sentir dire “Castlamont pais dle pignate” questo non fa per noi, è troppo poco ,troppo passatista, roba di altri tempi” ed esorta gli addetti del settore ad aprirsi al rinnovamento ed a superare le difficoltà.
A parole propositive verso di loro, parole che regolarmente verranno ancora ripetute (sempre invano) sino ai giorni nostri. “Son brava gente questi ceramisti e son fatti un po’ a modo loro…cerchiamo di avvicinarci a loro e di incoraggiarli e speriamo che un giorno (prossimo) essi si riuniscano in consorzio, abbiano chi dia loro una direzione, si suddividano la produzione e si approfondiscano ognuno in una data lavorazione e possano servirsi di giovani artigiani che avranno imparato ad una scuola che a Castellamonte esiste già. Solo così un nuovo ritmo di vita e di lavoro sarà benefico per la nostra regione.”
La passione per la ceramica lo assorbirà quasi completamente, così come la ricerca di smalti per rivestire le terrecotte.
Assieme al giovane professore Lama, venuto da poco a dirigere il laboratorio di ceramica della Scuola d’Arte porta a termine parecchi lavori, in smalto rosso, uno dei primi che sarà accettato alla XX Biennale di Venezia.
Quando partirà da Castellamonte sarà pronto a dedicarsi esclusivamente al suo nuovo amore: la ceramica.
Leo Ravazzi resto a Castellamonte fino al 1936, dopo 11 anni di insegnamento alla scuola d’Arte, decise di richiedere il trasferimento. A Castellamonte ebbe il tempo disponibile per dedicarsi alla sua arte, ma in quella scuola non avrebbe potuto sistemare la sua posizione d’insegnante.
Il Ministero gli propose la direzione della Scuola d’Arte Ceramica di Sesto Fiorentino senza concorso.
La nuova scuola coi i suoi numerosi e attrezzati forni, gli darà modo di fare nuove esperienze e di perfezionare le sue ricerche iniziate a Castellamonte, nel campo smalti, cristalline, ecc, che daranno un nuovo aspetto alla sua arte.
Leo Ravazzi divenne anche un tecnico della ceramica, instancabilmente alla ricerca di nuovi effetti; egli ha composto infatti smalti e verniciature speciali, rivestimenti cristallizzati. Rivestimenti rossi a 920°, rivestimenti trasparenti ed altre diverse varietà di colori e riflessi che nella sua arte rappresentano tante conquiste d’espressione.
Sono di quegli anni i suoi più belli lavori in ceramica:
La tragedia, Donna Antica, Mercurio, Cleopatra, La Partenza, La Sposa, Donna Italiana, La Musica, L’Abbondanza,ecc.
Espone a Palazzo Strozzi, alla Quadriennale di Napoli, alla Sala d’Arte della Nazione a Firenze, alla mostra d’Arte Italiana a Dusseldorf e fa parte di numerose giurie.
La direzione della scuola d’Arte di Sesto Fiorentino gli pesa, così nel 1942 richiede al Ministero il trasferimento a Perugia.
Nel 1955 lavora per costruire l’altare di una chiesa benedettina a Latrobe in Pennsylvania (USA), scolpisce quattro altorilievi in botticino che dovranno sostenere la Mensa e anche il Crocifisso dell’Altare.
Sarà la sua ultima importante fatica artistica, dopo una breve malattia morirà a Perugia nel 1958.
Leo Ravazzi fu un artista eclettico, ma furono gli anni castellamontesi a far maturare in lui quella passione per la ceramica che lo porterà a raggiungere i traguardi artistici più importanti.
Le sue opere si trovano al Museo di Napoli, al Museo Internazionale di Faenza, alla raccolta Sclavo di Siena e in importanti collezioni ceramiche nazionali ed estere.
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page