lunedì 30 aprile 2012

Dall’Aspromonte al Forte di Bard

Dall’Aspromonte al Forte di Bard


Nelle carte dell’archivio comunale d’Ivrea, il passaggio di 500 prigionieri garibaldini in Canavese. Una pagina triste e sconosciuta del nostro Risorgimento.

Chi frequenta gli archivi storici sa bene che le sorprese non finiscono mai. Si può passare giorni alla ricerca di qualcosa che non si troverà, o imbattersi in una serie di documenti interessanti, che non si sarebbe mai pensato di trovare.
Qualche mese fa, insieme all’amica ricercatrice Josè Ragona, stavamo cercando nell’Archivio della città di Ivrea, documenti riguardanti l’epidemia di colera che colpì il Canavese nei primi anni dopo l’Unità d’Italia.
Casualmente ci finì tra le mani una cartella con su scritto: Prigionieri Garibaldini anno 1862.

La cosa ci incuriosì : prigionieri di chi? ..e poi la data, il 1862, l’anno seguente la proclamazione dell’unità d’Italia. Aperta la cartella, la sorpresa si tramutò in stupore. Garibaldini arrestati dal governo italiano, in transito ad Ivrea e diretti al forte di Bard, e soprattutto il loro numero: 500…mica una decina di furfanti che sempre si trovano negli eserciti. Dovemmo pensarci un pò, richiamando alla memoria le vicende storiche di quegli anni e realizzammo che doveva trattarsi della sfortunata spedizione di Garibaldi alla conquista di Roma e del suo ferimento sull’Aspromonte. La discreta documentazione eporediese fornì lo spunto per la ricostruzione di una vicenda piena d’entusiasmo e idealità, ma iniziata in tempi ancora non maturi e destinata al fallimento.

Abbiamo così deciso di ricordarla, anche se essa non è delle più luminose della nostra storia Risorgimentale.



Garibaldi alla conquista di Roma



Tutti sanno quanto la “questione romana”, vale a dire liberare Roma e i territori dello stato pontificio dal potere del Papa, stesse a cuore a Giuseppe Garibaldi.
Nel 1862, nonostante l’unità nazionale fosse stata proclamata l’anno prima, Roma, il Lazio e il nord-est ancora mancavano al compimento dell’Italia.
Giuseppe Garibaldi disgustato dalle vicende politiche seguenti la proclamazione di Vittorio Emanuele re d’Italia si ritirò a Caprera, ma vi rimase poco.

Nel giugno del ’62 in Sicilia la situazione politica precipitò: l’occupazione piemontese e la politica adottata avevano creato delusione nel popolo, il quale sperava in un cambiamento in realtà mai avvenuto. Il pericolo di un’insurrezione popolare era imminente, e il prefetto di Palermo Pallavicino, amico di Garibaldi, sapendo della popolarità che esso godeva tra i siciliani lo chiamò a Palermo. Garibaldi non restò insensibile e decise di raggiungere in segreto l’isola. Solo pochi amici fidati furono a conoscenza della partenza e uno di questi scrisse ad un amico: ”l’aquila è volata al sud”
Il 28 giugno arrivò a Palermo. Il calore e l’affetto con cui i siciliani l’accolsero e le folle sterminate ed acclamanti lo persuasero che con gente così animata, avrebbe potuto compiere l’impresa che da sempre agognava: la conquista di Roma.

Garibaldi era consapevole, che la sua iniziativa non sarebbe stata facile: Roma e il Papa erano sotto la protezione della Francia e di Napoleone III. Inoltre non avrebbe potuto contare su nessun aiuto da parte del neo re d’Italia Vittorio Emanuele II in quanto non avrebbe rischiato di pregiudicare l’alleanza della Francia al suo giovane Stato.
L’unica possibilità per il generale era quella di una sollevazione popolare nello stato Pontificio e una sua conseguente vittoria militare che mettesse la Francia, l’Italia e l’Europa intera di fronte ad un fatto compiuto.

Il 15 luglio arringò il popolo palermitano con infuocate parole:

“Il padrone della Francia, il traditore del 2 dicembre, colui che versò il sangue dei fratelli di Parigi, sotto il pretesto di tutelare la religione e il Cattolicesimo, occupa Roma . Egli è mosso da sete infame di impero, egli è il primo che alimenta il brigantaggio. Popolo dei Vespri. Popolo del 1860, bisogna che Napoleone sgombri Roma. Se è necessario, si faccia un nuovo vespro…A Roma vi giungeremo, ma con le armi, vi giungeremo con il santo programma con cui passammo il Ticino e sbaragliammo gli austriaci, con cui sbarcammo a Marsala e venimmo qua a dividere le sorti di voi, bravi palermitani.”
 Dalla folla scaturì il motto “Roma o morte” e fu il motto della nuova impresa garibaldina, scritto sulla bandiera accanto al vecchio Italia e Vittorio Emanuele.

I giorni che seguirono, furono ferventi di preparativi, da ogni parte dell’isola e anche dal continente affluirono volontari, armi e munizioni.
Ben presto furono armati tremila volontari che si accamparono nella foresta della Ficuzza.
Le più alte dame di Palermo gareggiavano con le popolane nel confezionare camicie rosse per la spedizione romana. Le sorti della legione garibaldina erano però segnate: in quei giorni dominava più che mai, nei consigli della Francia l’imperatrice Eugenia, lei che disse al nostro Costantino Nigra, con una punta di disprezzo allorché parlava dell’Italia : “ Morte finchè si vuole, Roma mai !!”

Le sorti erano segnate, il governo Rattazzi ordinò al prefetto di Palermo di reprimere l’insurrezione ad ogni costo anche arrestando Garibaldi, ma egli rifiutò sdegnosamente di obbedire e diede le dimissioni.
Il re nominò prefetto di Palermo e comandante militare dell’isola il generale Efisio Cugia e il 3 agosto pubblicò il seguente proclama:



Italiani! Nel momento in cui l’Europa rende omaggio al senno della nazione e ne riconosce i diritti, è doloroso al mio cuore che giovani inesperti ed illusi, dimentichi dei loro doveri, della gratitudine ai nostri migliori alleati, facciano segno di guerra il nome di Roma, quel nome al quale intendono concordi i voti e gli sforzi comuni. Fedele allo Statuto da me giurato, tenni alta la bandiera dell’Italia fatta sacra dal sangue e gloriosa dal valore dei suoi figli. (…)
Italiani! Guardatevi dalle colpevoli impazienze e dalle improvvide agitazioni. Quando l’ora del compimento della grande opera sarà giunta, la voce del vostro Re si farà udire tra voi.
Ogni appello, che non è il suo, è un appello alla ribellione, alla guerra civile. La responsabilità e il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole.”



Lo scontro a fuoco tra bersaglieri e garibaldini e il ferimento di Garibaldi.



Garibaldi ebbe notizia delle posizioni assunte dal governo e dal Re quando già aveva iniziato la marcia verso Catania dove entrò da trionfatore.

A Catania il suo esercitò raggiunse il numero di 5.000 volontari. Il 25 agosto, dopo aver sequestrato due piroscafi, il “Dispaccio” e il “Generale Abatucci”, con 3.000 volontari sbarcò sulle coste Calabresi.
Intanto la politica faceva il suo corso. Il governo Rattazzi, deciso ad evitare con ogni mezzo un incidente diplomatico con l’alleato francese, diede ordine al generale Cialdini di mobilitare le truppe regie e di marciare contro le truppe garibaldine.
Giuseppe Garibaldi con l’intento di evitare lo scontro con le truppe regie si diresse verso Aspromonte, dove i suoi volontari si accamparono stanchi ed estenuati dalla fame, dopo una marcia di 40 ore
Ancora una volta il generale proibì severamente di aprire il fuoco contro i regolari e prese posto in prima linea, davanti alla strada dalla quale le truppe regie dovevano salire.

In quel momento ancora sperava che le truppe regolari non avrebbero sparato e non gli avrebbero sbarrato la strada per Roma.

I bersaglieri regi però, divisi in due colonne, riuscirono a circondare i garibaldini e verso le 5 pomeridiane i bersaglieri aprirono il fuoco.
Giuseppe Garibaldi, ritto e immobile in mezzo ai suoi urlò di non rispondere al fuoco, di non uccidersi tra fratelli, ma la sparatoria era ormai iniziata e anche quando fu colpito di striscio ad una coscia continuò ad urlare “Non sparate, viva l’Italia”, quando una palla lo colpì al piede e cadde tra le braccia di Enrico Cairoli che assieme ad altri lo trascinarono sotto un albero.

Sparsasi la voce che Garibaldi era stato colpito e ferito due volte, un fremito d’ira e d’indignazione corse tra i volontari, ma anche tra le truppe regolari. Imprecazioni e accuse gli uni contro gli altri e contro chi aveva iniziato la sparatoria. In quel mezzo il generale Pallavicini si avvicinò, scese da cavallo e toltosi il cappello lo pregò di arrendersi, in quanto non aveva patti da offrire, ma “solamente l’ordine di combatterlo”.

Garibaldi non aveva alternative, gli raccomandò i feriti, e si consegnò ai regolari, che lo condussero sulla costa e imbarcato a bordo del vapore “Duca di Genova” lo condussero in stato di arresto al forte di Verignano.



L’imprigionamento dei volontari garibaldini e le conseguenze politiche



Questa è sostanzialmente la tragica vicenda della spedizione garibaldina per la conquista di Roma e del ferimento del Generale sull’Aspromonte.

Su molti libri di scuola la disavventura di Garibaldi sull’Aspromonte fu trattata in modo frettoloso. Poca attenzione fu soprattutto dedicata alle conseguenze politiche, che questo scontro fratricida scatenò.
Intanto il combattimento, anche se durò poco, provocò 7 morti e 25 feriti tra i soldati governativi e 5 morti e venti feriti, tra i quali Giuseppe Garibaldi, tra i volontari.
Ma poco si seppe sulla sorte dei 3.000 garibalbini sbarcati con Garibaldi sulle coste calabre.

Presubilmente molti, appreso che le truppe inviate dal governo Rattazzi avevano l’ordine di fermarli ad ogni costo, si dispersero lungo la marcia verso l’Aspromonte.
Dopo la battaglia e l’arresto di Garibaldi, la “grande storia” segue gli accadimenti successivi, mentre le stesse biografie dell’Eroe si soffermano più sulla lenta guarigione delle sue ferite che sulle vicende e le conseguenze che i volontari garibaldini ebbero a soffrire.



Le cifre ufficiali parlano di 1909 prigionieri.

Peggior sorte toccò a quei soldati dell’esercito di stanza in Sicilia che seguirono volontariamente Garibaldi nella sua avventura.
Considerati disertori, furono immediatamente fucilati e il loro numero non si conobbe con esattezza, variando notevolmente secondo le fonti, dalle decine alle centinaia.
Le notizie degli scontri sull’Aspromonte e il ferimento e dell’ arresto di Giuseppe Garibaldi furono apprese con sgomento da tutto il Regno. Scontri antigovernativi avvennero in diverse città italiane e forte emozione suscitò tra i liberali europei.
In Parlamento soprattutto la Sinistra che la Destra accusarono il governo Rattazzi di aver prima appoggiato Garibaldi per poi abbandonarlo, dimostrandosi arrendevole di fronte gli interessi francesi.



Il destino dei prigionieri garibaldini e il loro arrivo a Ivrea



Cerchiamo ora di seguire le sorti dei prigionieri: la letteratura ci dice che essi furono divisi e inviati in varie località, come Ischia, Monteralli, e il forte di Vinadio.

Dalle carte dell’archivio di Ivrea però, apprendiamo che 500 di questi prigionieri giunsero a Ivrea diretti al forte di Bard.
La notizia giunse al Sindaco d’Ivrea il 5 settembre 1862 da parte del sotto-prefetto del Circondario d’Ivrea, il quale comunicò l’arrivo di 500 prigionieri garibaldini e di un battaglione di fanteria come scorta. Inizialmente si pensò che i prigionieri non si fermassero a Ivrea, ma proseguissero direttamente verso il forte di Bard. Nella missiva, il sotto-prefetto, così scrive:

 “Non vi sarà fermata è vero, perché debbono procedere appena discesi dalla ferrovia; ma è duopo essere cauti.
Crederei prudente che vi fosse un pò di Guardia Nazionale comandate in piazza unicamente per impedire qualunque manifestazione nè pro nè contro.
Dabbene non si dubiti della morigeratezza e della prudenza di questa buona popolazione, io trovo opportuno, incaricato anche dal sig.Ministro di usare la massima precauzione all’uopo e di prevenire qualunque inconveniente”.



Evidentemente le autorità militari locali non erano molto informate. Una lettera successiva sempre della sotto-prefettura accenna all’eventuale fermata ed è più rigida in fatto di sicurezza:

“Onde non si rinnovino i disordini avvenuti nella notte dal 31 agosto e potendo darsi che i prigionieri garibaldini destinati al Forte di Bard giungano in questa città nella sera di sabato o domenica, il sottoscritto si fa a pregare il sig. Sindaco di Ivrea a volersi compiacere di disporre che un consistente numero di Guardia Nazionale sia in tale opera chiamata a tutelare l’ordine pubblico eseguendo nelle ore notturne pattuglie regolari nelle vie della città".

Effettivamente, come i successivi documenti affermano i prigionieri faranno tappa ad Ivrea.

Essi giunsero per ferrovia la mattinata del 7 settembre, quindi considerando che gli scontri sull’Aspromonte avvennero il 29 agosto, dopo 9 giorni.
Imbarcati dalla costa calabra il giorno seguente con una nave a vapore raggiunsero Genova, poi per ferrovia Ivrea. Un viaggio estenuante stipati, nella stiva della nave prima e nei vagoni angusti dell’epoca poi.
Si può ben immaginare che all’arrivo ad Ivrea le loro condizioni di salute non furono certo delle migliori.
Il loro arrivo e l’imprevista fermata mobilitò le autorità municipali a cui toccò l’incombenza di trovare una sistemazione, fornire le razioni di viveri e i soccorsi sanitari, oltre a garantire la sicurezza..
Nella stessa mattinata in cui i prigionieri garibaldini si apprestavano a giungere in stazione e mentre la municipalità cercava ancora di mobilitare la Guardia Nazionale giungeva la richiesta di aumentare ancora gli organici.

7 settembre 1862 Richiesta di una compagnia della Guardia Nazionale, per servizio straordinario in città.

"Attesa l’impreveduta fermata in questa città per tutta la ventura notte dei 500 prigionieri garibaldini testè giunti per la via ferrata, nell’interesse della pubblica tranquillità e come misura prudenziale il Sotto.prefetto invita il sig.Sindaco di Ivrea ad ordinare che invece di un drappello di Guardia Nazionale, sia chiamato sin da ora ed al più presto possibile una compagnia di detta comunità nazionale e che siano poi questi stessi raddoppiate le pattuglie già ordinate, alcune delle quali pattuglino continuamente nei vicoli e contrade adiacenti al sito ove detti prigionieri trovandosi acquartierati e le altre il restante della città".

Dello stesso giorno un’altra missiva intima che:

"….considerata l’urgenza di provvedere al collocamento e ricovero per questa notte dei prigionieri garibaldini e del battaglione di scorta e ritenuta l’opportunità e convenienza che siano ritirati in uno stesso locale nell’interesse della sorveglianza e custodia di essi prigionieri e della tranquillità pubblica,si ritiene di occupare oltre il piano terreno già conceduto del Seminario grande, anche i piani superiori dello stesso in quanto può dalle informazioni assunte e dall’esame fatto sul luogo consta che il convitto vescovile e le attigue residenze non bastano al bisogno".

Non è difficile immaginarsi la concitazione nella quale era piombata la tranquilla cittadina di Ivrea, che nell’arco di un paio di giorni si trovò ad affrontare un evento complesso e inaspettato.
Nella documentazione cittadina si trovano le lunghe liste di spese sostenute dalla municipalità, che vanno dalle razioni alimentari, al soccorso sanitario, al foraggio per i quadrupedi del battaglione di scorta.
Per la sistemazione notturna fu requisito il seminario vescovile, il convitto nazionale e luoghi limitrofi dove si montarono le tende.
Non risulta da nessun documento, che in città vi siano state dimostrazioni a favore dei garibaldini, come peraltro successero in altre città, quindi dobbiamo pensare che la notte trascorse tranquilla e al mattino la lunga colonna di prigionieri si incamminò per il forte di Bart.

La sfortunata vicenda garibaldina, se per un verso era stata neutralizzata secondo le intenzioni del governo Rattizzi e del re, dall’altro aveva scatenato le piazze e ridato fiato ai rivoluzionari di ogni sorta, che si saldavano con l’indignazione della maggioranza dell’opinione pubblica.
Giuseppe Garibaldi ferito dai piemontesi e agli arresti, così come 1900 garibaldini, detenuti nelle celle malsane dei forti e delle prigioni borboniche, appena un anno dopo che tutta l’Italia li aveva celebrati come eroi, era una cosa intollerabile anche per il governo e la corte

Ma liberare i garibaldini e Garibaldi, sotto la pressione popolare, senza processo, si rischiava di compromettere il Re, che doveva dimostrare che lui con quell' azione rivoluzionaria non c'entrava proprio per nulla. Peggio ancora liberarli con una grazia del Re: avrebbe tolto valore all'atto di energia che il governo, legalmente, aveva compiuto nei confronti di un esercito rivoluzionario.
In quel periodo non mancarono le minacce di attentati contro il re e Rattazzi e si richiese da più parti lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Concedere sotto la pressione dell’opinione pubblica eccitata dai gravi fatti, nuove elezioni avrebbero però significato un grosso rischio.

L’imbarazzante situazione andava risolta al più presto e l’occasione venne fornita dalle ottime relazioni che la monarchia sabauda intratteneva con il re del Portogallo Luigi I.
Vittorio Emanuele che voleva espandere la dinastia sabauda nel Mediterraneo, per procura si affrettò a dare in sposa a Luigi I la figlia, principessa Maria Pia di Savoia.
Com’era consuetudine in questi casi, il 27 settembre concesse un’amnistia ai carcerati.
In questo modo tutti i coinvolti nei fatti dell’Aspromonte tornarono in libertà, compreso Garibaldi e i 500 prigionieri garibaldini di Bard.

Si chiuse così questa vicenda, che interessò indirettamente e marginalmente anche il nostro Canavese, perdendosi nella memoria collettiva, ma per fortuna lasciando una traccia scritta, che ci ha permesso di rivivere e ricordare un evento triste e poco noto del nostro Risorgimento.



Aprile 2011





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