giovedì 31 gennaio 2013

Giacomo Robatto, un canavesano a Salvator de Bahia





La storia che vogliamo raccontare, è quella di uno dei pochi canavesani, emigrati in Brasile, che riuscirono a spezzare il cerchio della miseria ed avere fortuna in quel paese così lontano ed esotico e lo possiamo fare grazie ad un cospicuo numero di lettere inviate ai parenti.


Giacomo Robatto


Verso le ultime due decadi del secolo XIX iniziò la grande emigrazione italiana.
Inizialmente furono soprattutto le genti del nord-Italia ( veneti, lombardi, piemontesi) ad intraprendere la grande avventura, spinti dalla disperazione causata dalla grave crisi agricola ed attratti dal sogno di una vita migliore.
Il Brasile fu tra le prime mete alle quali si indirizzarono i nostri migranti, canavesesani compresi e la quota di arrivi raggiunse l’apice nella decade 1893 - 1903 con 538 mila unità, dei quali 40336 furono i piemontesi. ( fonte: Istituto Brasiliano di Statistica)
Perché il Brasile? Per diverse ragioni, ma soprattutto per il grande fascino rappresentato dalla vastità di terre fertili e incolte che esercitavano un forte richiamo per quei contadini ridotti alla miseria proprio dalla mancanza di terra.Inoltre un’efficace propaganda attuata dalle classi dirigenti e dalle compagnie di navigazione, le quali avevano interessi: le prime, di liberarsi del potenziale pericolo rappresentato da una grande massa di disoccupati e le seconde dal lucro economico, che ricavavano dal loro trasporto.
Il Brasile venne quindi percepitocome il luogo ideale per vivere bene e raggiungere in breve il sogno di diventare proprietari terrieri.

Giacomo Robatto                                                                                            

La realtà era, però, molto più prosaica. Il grande paese sudamericano, dopo anni di lotte e tensioni sociali, aveva abolito nel 1888 la schiavitù e i grandi proprietari terrieri, anche per spezzare la solidarietà e l’organizzazione cresciuta tra la gente di colore durante la lotta contro lo schiavismo, favorirono l’immigrazione e l’utilizzo della manodopera degli emigranti italiani che sostituì in buona parte quella prestata fino ad allora dalle persone usate in condizione di schiavitù.
In quanto bianco e cattolico l'immigrato italiano era trattato diversamente dagli schiavi di colore, ma la qualità della vita effettiva era di poco superiore, e poi le condizioni di lavoro difficili, la mentalità schiavista di molti proprietari terrieri portarono quelli di loro più intraprendenti ad abbandonare le campagne ed il sogno di diventare piccoli proprietari terrieri per avventurarsi nel settore dei servizi, nel commercio, al dettaglio e all'ingrosso, contribuendo notevolmente al rapido sviluppo delle città brasiliane.

Giacomo Robatto, nato nel 1856 originario di Borgomasino, fu uno di quelli: emigrato in Brasile all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, dopo una vita tribolata e avventurosa, riuscì ad impiantare a Salvador de Bahia una piccola tipografia, che con il tempo divenne una delle più rinomate della città.
Sarebbe interessante raccontare in modo compiuto la sua storia, come quella delle centinaia di canavesani recatesi in quell’immenso e lontano paese in cerca di fortuna, ma l’unica fonte alla quale possiamo attingere sono un pacco di sue lettere scritte ai parenti rimasti in Canavese.
Dalla loro lettura possiamo ricostruire brandelli di storia sua e dei suoi famigliari, sufficienti però a restituirci l’immagine di una famiglia che nell’emigrazione ha trovato quell’agiatezza che in patria non aveva e difficilmente avrebbe potuto avere.
Giulietta
Per tutti gli altri, meno fortunati o decisamente sventurati e poco avvezzi allo scrivere non ci resta che l’immaginazione.
La corrispondenza conservatasi e tenuta in serbo dalla famiglia Masi-Orsucci, copre uno spazio temporale che va dal 1910 al 1925, diradandosi poi progressivamente con il passare del tempo.
Da essa apprendiamo, che Giacomo Rubatto avrà, da una vedova brasiliana, certa Maria Barbosa, una figlia creola nata nel 1888 alla quale sarà imposto il nome di Giulietta.
La sorella del Robatto, Teresa rimasta in Italia sposa Giacomo Piana originario del “canton Piana” al tempo facente parte del comune di Quagliuzzo ora della frazione S.Giovanni di Castellamonte. I due si stabilirono a Strambino dove avviarono una panetteria.ed ebbero tre figli, uno dei quali, Marcello, si recherà in Brasile e sposerà la cugina Giulietta, intrecciando così la sua vita con quella dello zio Giacomo.
Il matrimonio avverrà a Salvador de Bahia il 4 gennaio 1908.

Le prime lettere di Giacomo Robatto sono successive al 1911, anno nel quale fece il suo primo ed ultimo rientro in Italia. Partito il 31maggio da Bahia con il vapore francese “Provance” arrivò a Genova il 13 giugno, dopo 14 giorni di navigazione e dopo altri due raggiunse Strambino dove abbracciò i parenti.
In quegli anni, la sua impresa tipografica era ormai avviata e aveva già raggiunto una buona condizione economica.
Nelle sue lettere sempre indirizzate al cognato con il quale, secondo le consuetudini si trattava tutti gli affari parentali, lo pregava anche di curare la spedizione in Brasile dei fusti di vino freisa e moscato dei fratelli Gancia di Canelli.
In una di esse si lamentava che in un invio di diciannove fusti di vino al momento del ritiro ne trovò tre vuoti e i rimanenti per la metà riempiti di acqua di mare.
Soprattutto però, si lamentava del genero Marcello, il quale a suo dire diventava padre di un figlio dopo l’altro, ma la famiglia la seguiva poco.
Lo aveva aiutato nel commercio del carbone, fornendogliene 14 vagoni, ma a suo dire dopo qualche mese non c’era più carbone, ma nemmeno soldi.
Lo accusava di avere scarsa volontà, di essere incline ai divertimenti: secondo lui non avrebbe mai fatto fortuna in quel paese.
Invita il cognato a “fare un passeggio” in Brasile, per rendersi conto di persona del comportamento di suo figlio.
Intanto, si fa costruire una casa a Praia Grande, nella località di Pirinperi in riva al mare, dove trascorre alcuni mesi dell’anno e medita di vendere la tipografia.

Nel 1915 l’Italia entra in guerra e il padre di Marcello, dopo tante imbarazzate scuse per non andare in Brasile, ne ha finalmente una valida: la guerra e rimanda il viaggio a “quando i mari saranno liberi”.
Le lettere del periodo di guerra ’15 – ’18 sono ridondanti di fede patriottica. Si augura che l’Italia “conquisti ciò che gli spetta”, che sconfigga i barbari tedeschi e termina le lettere con “W l’Italia, W il re, W i Savoia e avanti, sempre avanti”.
Per quanto riguarda lui, si adopera con altri connazionali per la raccolta di fondi da inviare al Consolato italiano.
Si lamenta sempre di Marcello, della sua scarsa operosità e della sua superbia, in quanto non accetta i suoi consigli.
Suo padre, probabilmente sensibile alla lamentele del Robatto, scrive a Marcello offrendogli la gestione della panetteria di Strambino, se fosse rientrato in Italia, ma Marcello gli risponde che ritornerà in Italia “solo quando sarà ricco”.
Giacomo Robatto, che doveva essere una persona sensibile, viste le condizioni economiche precarie della figlia e del genero, divide con loro la sua grande casa e fornisce loro ogni genere di aiuto.
Con il passare degli anni, siamo già dopo la prima guerra mondiale, Marcello deve aver “messo la testa a posto” con grande soddisfazione del suocero, che non si lamenta più di lui, anzi ne tesse le lodi.
Probabilmente il Rubatto, che si avvicina ormai alla settantina, lo introduce nei sui “negozi” e nelle sue attività, e Marcello si responsabilizza.
Non si capisce quale sia il suo ruolo, cosa esattamente faccia: nelle lettere di Marcello alla famiglia non vi sono riferimenti precisi, solo convenevoli e annunci di nascite di nuovi figli. Ne avrà nove, sei maschi e tre femmine.
Il resto sono richieste di invio di stoffe di lino, per fare “vestimenta”, cataloghi e prezzi delle macchine italiane, in particolar modo delle Fiat e la curiosa richiesta a suo padre di cercargli, nel Canavese, un bel esemplare di mulo, alto almeno metri 1,60, per usarlo da stallone nelle “fazende” brasiliane.
Nelle lettere di Giacomo Robatto al cognato, alle lamentele per Marcello, subentra la nostalgia dell’Italia. Sogna il rientro in patria; vuole portare almeno due dei suoi nipoti in qualche buon collegio di Torino, affinché abbiano un’educazione italiana; più di ogni altra cosa desidera passare gli ultimi anni della sua vita nella sua terra, nel Canavese e tra la sua gente.

Nell’ottobre del 1920, Marcello scrive ai suoi genitori a Strambino, la lettera è contornata da un’ampio bordo nero: “ lo zio Giacomo, il 18 di settembre 1920, si imbarcò per la capitale Rio de Janeiro per divertirsi e assistere alle feste in onore di re Alberto del Belgio, però il giorno 30 alle 4 e mezza improvvisamente moriva di un attacco di uremia (retenzione di urina). La costernazione fu generale, e immaginatevi la nostra desolazione! Piangiamo chi in vita fu un lavoratore indefesso, buono, generoso, di un carattere senza macchia e sopra tutto onesto. Il cadavere è stato seppellito provvisoriamente a Rio de Janeiro, ma fra tre anni, dopo aver costruito una tomba degna, sarà trasportato e seppellito in Salvador de Bahia.”
La successiva lettera di Marcello informa la famiglia, che lui è stato nominato esecutore testamentale e che lo zio Giacomo aveva disposto che tutte le terre e proprietà, avute in eredità da suo padre e situate in Italia vadano ai parenti italiani.
Le proprietà brasiliane in terreni, le “Fazendas”, le case, il denaro, andarono invece alla figlia Giulietta, a Marcello e ai loro bambini e non vi sono ragioni da dubitare che non ne fecero buon uso.
Marcello Piana morirà in Brasile il 4 agosto 1948 all’età di 62 anni. I suoi nove figli e gli innumerevoli nipoti e discendenti fanno parte oggi, di quella che secondo fonti diplomatiche italiane, è la più grande comunità di origine italiana fuori d’Italia, e che è stimata in 25 milioni di persone.

                                                                                                                               Emilio Champagne






 

 

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