lunedì 30 aprile 2012

Processi per collaborazionismo e crimini fascisti alla Corte d’Assise Straordinaria di Ivrea




Sessantacinque anni sono ormai trascorsi da quella primavera del 1945, che pose fine al periodo più buio della storia recente d’Italia.
Un periodo iniziato nei primi Anni Venti con l’uso sistematico della violenza contro le associazioni democratiche dei cittadini, le organizzazioni di categoria dei lavoratori, le leghe dei contadini “colpevoli” di chiedere migliori condizioni di vita.

“Ordine, disciplina e Patria” erano i valori con i quali si giustificarono violenze inaudite e spesso delitti efferati, condonati negli anni seguenti con la motivazione dell’essere stati compiuti “nell’interesse nazionale”.
Gli stessi valori e le stesse giustificazioni portarono alla soppressione delle libertà democratiche, all’instaurazione della dittatura, con la persecuzione di centinaia di migliaia di cittadini, all’avvio di guerre coloniali, per giungere infine a trascinare l’Italia nella più feroce e distruttiva guerra mondiale, che la trasformò in un cumulo di rovine.
Il tutto in poco più di venti anni, un periodo storicamente breve, nel quale, però, si concentrarono regressioni sociali e politiche e si aprirono ferite profonde che ancora oggi, a distanza di decenni, non sono state completamente sanate.

Nei tempi in cui viviamo, mentre l’insegnamento della storia contemporanea e quindi della lotta di Liberazione dal nazifascismo, viene trascurato dalle materie di insegnamento e gli storici relegati in ruoli sempre più marginali, sono invece giornalisti, politici, operatori della comunicazione in genere, che periodicamente suscitano tempeste mediatiche a sostegno di operazioni editoriali di successo, che “scoprono” e presentano come “novità” fatti deprecabili di violenza avvenuta ad opera di partigiani ai danni dei fascisti, dopo il 25 aprile 1945. Accadimenti già dibattuti da decenni dagli storici e sui quali esiste una vasta letteratura.

Forse legittimo dal punto di vista editoriale, il fatto non sarebbe preoccupante se il contesto sociale e politico attuale non presentasse aspetti di sostanziale disinteresse verso i valori, di libertà e democrazia, espressi dalla guerra di Liberazione.

Se da una parte la destra politica attua una continua attività mirante ad operare un revisionismo storico culturale, dall’altra parte, d’ altro canto le forze di sinistra hanno più o meno consapevolmente affievolito il riferimento alle tradizioni antifasciste col risultato di determinare un vuoto ideale e ideologico e l’oblio di un passato divenuto, nell’ottica dell’omologazione alle visioni economiche liberiste imperanti, improvvisamente ingombrante e importuno.
Il delicato periodo storico che va dal crollo del regime fascista (25 luglio 1943) alla piena consacrazione dello stato democratico con l’entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948) fu solo un tragico frangente di guerra civile, nel quale gli italiani si affrontarono con reciproche atrocità, come cerca di sostenere certa destra politica o fu invece un periodo storico di riscatto morale e politico sul quale gettò le basi e si sviluppò il nostro Paese?
Ed ancora, dopo il 25 aprile vi fu solo una spietata giustizia sommaria perpetrata da singoli o da gruppi, o lo stato democratico seppe fare i conti con il passato regime fascista ponendo le singole persone che favorirono e perpetuarono la dittatura di fronte alle proprie responsabilità applicando una rigorosa giustizia?

Non si possono certo affrontare questi complessi quesiti in poche pagine, si può però riassumere gli eventi principali e favorire una riflessione.

Nei giorni che seguirono il 25 aprile 1945, dopo la capitolazione delle forze nazi-fasciste, si scatenò un furore popolare che portò in alcune zone del Paese, dove più feroce era stata la repressione contro le bande partigiane e la popolazione che in varie forme l’ aveva sostenuta, a gravi fatti di giustizia sommaria verso gli appartenenti e i fiancheggiatori della Repubblica Sociale Italiana.
Migliaia di partigiani costretti a nascondersi, a sfuggire ai rastrellamenti, a sopravvivere in montagna e a combattere una guerra impari contro un esercito come quello tedesco efficiente ed organizzato e contro le brigate fasciste che lo sostenevano, si riversarono nelle città con l’ebbrezza dei vincitori e con un comprensibile desiderio di giustizia.
Persone segnate nel fisico e nell’animo, con amici caduti in combattimento o fucilati dopo indicibili torture, reclamarono a gran voce la punizione dei colpevoli e qualcuno non seppe aspettare la giustizia del nuovo stato democratico.

Le settimane che seguirono furono le più terribili per i vinti: migliaia di fascisti furono passati per le armi, spesso negli stessi luoghi dove erano stati fucilati partigiani e antifascisti.
Vecchi rancori riemersero da un passato al tempo non troppo lontano. Le uccisioni e le violenze, perpetrate dagli squadristi fascisti nei primi Anni Venti erano ancora vive nelle menti di chi le aveva subite, soprattutto in quelle zone della pianura Padana ove il fascismo si era imposto con maggior violenza.

La situazione fu talmente caotica che sfuggì di mano agli stessi Comandi della Resistenza e degli Alleati. Le direttive del Comitato di Liberazione Nazionale, tutte impostate sulla cessazione delle ostilità, dopo l’avvenuta capitolazione delle forze nazi-fasciste, trovarono delle oggettive difficoltà di applicazione, dovute alla difformità territoriale nelle quali la capitolazione avvenne. Ad esempio, mentre nell’ultima settimana di aprile del ’45 si festeggiava la liberazione, in alcune zone del Canavese e del Biellese continuavano i combattimenti e si contavano ancora caduti. La capitolazione dei nazi-fascisti fu firmata solo il 2 maggio ’45. Nella stessa Torino già liberata e con i manifestanti nelle strade, si ebbero ancora numerose vittime causate da gruppi di cecchini che dai tetti sparavano sulla folla.
I dirigenti del C.L.N. ebbero grande difficoltà a coordinare e sottoporre alle loro direttive i numerosi gruppi e formazioni partigiane che negli ultimi mesi di lotta erano cresciute a dismisura soprattutto negli organici; i successivi provvedimenti di disarmo delle brigate, con il passaggio delle competenze di ordine pubblico e quindi dell’arresto e detenzione dei presunti colpevoli di collaborazionismo e di delitti alla Polizia partigiana fu tutt’altro che facile, per la resistenza di singoli e di gruppi cha agivano in autonomia.

Causa quelli che cercarono di chiudere i conti nel peggiore dei modi, la Resistenza non scrisse in quei giorni le sue pagine migliori, ma sarebbe sbagliato considerare quel periodo con un facile moralismo di comodo che tutti accomuna.
Occorre rispetto ai morti e a quanti in buona fede si trovarono dalla parte sbagliata, ma gli ideali della Resistenza e di quelli che morirono per essi non sono equiparabili con quelli della parte avversa.

Il periodo di transizione (1943-47)

Dopo la caduta del governo Mussolini (25 luglio 1943) e il periodo badogliano si costituisce, il 18 giugno ’44, nelle zone liberate dagli Alleati il “Governo del Sud” considerato il legittimo Governo italiano in quanto sostenuto dai ricostituiti partiti democratici a differenza della sedicente Repubblica di Salò voluta e sostenuta dall’esercito tedesco.
Tra i primi atti legislativi del Governo presieduto da Ivanoe Bonomi presidente del Consiglio e dal figlio di Vittorio Emanuele III°, Umberto, nominato Luogotenente del regno, furono le Sanzioni contro il fascismo che punivano chi aveva promosso o diretto la svolta dittatoriale del 3 gennaio 1925; contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista e a chi, dopo l’8 settembre ’43, aveva commesso delitti “ contro la fedeltà e difesa militare dello Stato.

La competenza fu affidata, per la prima categoria ad un’Alta Corte di Giustizia e per la seconda categoria alla magistratura ordinaria o militare secondo le norme vigenti.
I dirigenti politici e militari della Repubblica Sociale incorsero nei rigori dell’art. 5 del decr. 27 luglio 1944: “Chiunque, posteriormente all’ 8 settembre 43, abbia commesso delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione con il tedesco invasore, di aiuto o assistenza ad esso prestata è punito a norma del Codice penale di guerra.”
Disposizioni severe, comportanti anche la pena capitale e la confisca dei beni per i traditori della Patria, confermate ed inasprite nel successivo decreto legislativo del 22 aprile 1945 n°142 che considerò “collaboratore del tedesco invasore” chiunque avesse rivestito mansioni di comando.
Integrano gli estremi di aiuto al nemico, previsto e punito dall’art. 51 del Codice Penale Militare di Guerra, “la delazione ai danni dei partigiani, la partecipazione a rastrellamenti, la cattura, il ferimento e l’uccisione degli stessi in collaborazione con le forze armate tedesche.”

Lo stesso decreto, nell’imminenza della liberazione del Paese, istituiva le Corti d’Assise Straordinarie, affidando ad esse l’esclusiva competenza per tutti i reati di collaborazionismo.
Le C.A.S erano formate da un magistrato Presidente e da quattro giudici popolari estratti a sorte da un gruppo di cinquanta cittadini scelti dal Presidente, da un elenco di cento fornito dal C.L.N.

Già prima della Liberazione erano istituiti tra le forze partigiane dei “Tribunali del Popolo” che cercarono di amministrare la giustizia, anche se con molta improvvisazione e una certa sommarietà, nonostante il dichiarato impegno e la cura riposta nell’apparire come tribunali normali, con tanto di presidente, di pubblico ministero, di avvocati difensori e di giudici.
Sulle orme di questa sperimentazione giudiziaria, il C.L.N. sostenne la costituzione delle “Corti d’Assise del Popolo” come strumento di giustizia rivoluzionaria, ma furono osteggiate dal Governo Bonomi, che ribadì le prerogative della giustizia ordinaria, istituendo le Corti d’Assise Straordinarie con il già citato decreto legislativo 22 aprile 1945.

Questo provvedimento servì a smorzare il furore popolare e i rischi di una generalizzata giustizia sommaria, favorendo la normalizzazione e il consolidamento dello stato democratico.

I nuovi istituti giuridici, pur lavorando intensamente, si trovarono ad affrontare un’enorme emergenza processuale e carceraria: la Commissione alleata trasmise alle autorità italiane elenchi di centinaia di “spie, traditori e fascisti” che si assommarono alle liste elaborate dal l’Alto Commissariato che erano talmente folte di consiglieri, ispettori, segretari politici e componenti della milizia da renderne impensabile l’arresto e il giudizio.
Inevitabile dunque il paradosso di una giustizia “troppo sbrigativa nelle piazze, ma troppo lenta nei tribunali”

All’esito delle sentenze non era estranea la pressione psicologica esercitata dai cittadini che affollavano le aule di giustizia, mentre all’esterno potenti altoparlanti permettevano ad una folla minacciosa di seguire il dibattimento.
La presenza di amici e parenti dei partigiani uccisi spesso dopo strazianti torture rendevano incandescente il clima processuale; non rari i tentativi di linciaggio degli imputati, salvati a stento dalle forze dell’ordine.
Episodi di intimidazione degli avvocati difensori troppo zelanti e delle Corti che pronunciavano sentenze giudicate troppo miti si verificarono in molti luoghi dove l’oppressione nazi-fascista era stata più violenta. La cronaca riporta un caso nel quale la sentenza della Corte nei confronti di un imputato fu giudicata troppo mite dalla folla, che costrinse i giudici, seduta stante, a incrementare la pena.

L’episodio più incredibile avvenne al tribunale di Brescia, dove il 14 luglio 1945 un carabiniere scaricò il mitra contro l’ufficiale della Brigate nere Ferruccio Sorlini, rinchiuso nella gabbia dei prigionieri.
L’imputato condannato in prima istanza dalle C.A.S. aveva diritto di ricorrere ad un secondo grado di giustizia rappresentato dalla Corte suprema, che soprattutto in presenza di pene severe come le condanne a morte valutava se vi fossero stati particolari condizioni ambientali.

Le Corti di Assise Straordinarie rimasero in funzione sino al 1947, passando in seguito le incombenze alle Corti di Assise ordinarie.
In Piemonte, dove maggiore era stato il numero dei partigiani fucilati, dal giugno 1945 al dicembre 1947, sul totale di 3634 imputati, furono decretate 203 pene capitali (18 delle quali eseguite), 23 ergastoli e 853 pene detentive dai 5 ai 20 anni.



La corte Straordinaria di Assise di Ivrea.



Costituita nel giugno ’45, operò come Sezione Speciale di quella di Torino e fu presieduta dal dott. Nello Naldini.
La documentazione (sentenze, dibattimenti, verbali d’interrogatorio ecc.) prodotta nel corso della sua operatività è di straordinaria importanza per lo studio del periodo di transizione dal regime fascista allo Stato democratico non solo per quanto riguarda l’applicazione della giustizia, ma anche per la ricostruzione degli eventi bellici e della lotta partigiana in Canavese.
Se ormai gli avvenimenti più tragici della storia resistenziale in Canavese, come la fucilazione di numerosi patrioti, sono stati storicamente ricostruiti, poco sappiamo sul “come andò a finire”, .ovvero se furono individuate responsabilità individuali e se vennero perseguite.

Questa curiosità, ha portato Renzo Sarteur dell’Anpi ad iniziare una non facile ricerca negli archivi del Tribunale di Ivrea
Anche se non può dirsi conclusa, essa ha già prodotto apprezzabili risultati e una decina di sentenze, riguardanti alcuni tra i fatti più significativi, sono state acquisite.
Ad esempio i processi ai responsabili dell’uccisione del partigiano Aldo Balla, dell’ arresto e dell’impiccagione di Walter Fillak a seguito dell’attacco al comando partigiano di Lace, la sentenza emessa contro un doppio-giochista che, conquistata la fiducia del Comando partigiano della Valle d’Orco, tradì passando importanti informazioni al Comando germanico di Cuorgnè ed altre di grande importanza.

Dalla lettura e dallo studio delle sentenze e dei verbali d’interrogatorio è possibile non solo ricostruire con precisione questi fatti, ma talvolta comprendere anche le recondite motivazioni che portarono uomini “normali” a fare scelte che li portarono dalla parte sbagliata, fino a trasformarsi in feroci assassini.
Interrogati sul perché della loro adesione alla Guardia Nazionale Repubblicana, che di fatto, li rendeva strumenti in mano ai nazisti, molti di loro danno giustificazioni che lasciano perplessi: dalla buona paga che serviva per mantenere la famiglia, all’alternativa al lavoro coatto in Germania; pochi sono quelli coscienti di dover combattere contro i loro connazionali e ancora di meno quelli che facevano questo con convinzione. Almeno con il senno di poi!
Indicativo il processo contro alcuni militi della G.N.R. che nei momenti liberi dal servizio, si travestivano da partigiani e giravano per le cascine dell’eporediese, incamerando viveri e materiali vari; in una di queste razzie uccisero un giovane che ingenuamente si era dichiarato anche lui partigiano e ne ferirono gravemente il fratello.
Molte sentenze della C.A.S. saranno durissime e sanzioneranno la condanna a morte, poi trasformata in ergastolo, quindi in 30 anni; non di rado l’ effetto combinato di amnistia, indulto e grazia consentì ai condannati di ritrovarsi liberi nel giro di qualche anno.
In Francia nel 1950 i detenuti politici (i collaborazionisti seguaci di Petain) erano ancora 5000. Nel Belgio 6115. Se in Italia i processi per collaborazionismo avevano coinvolto circa 43.000 cittadini, nel 1950 in carcere ne rimanevano soltanto 442.

I paesi europei che avevano subito l’occupazione nazista fecero seriamente i conti con il fenomeno dei collaborazionisti: in Italia invece, ad appena 14 mesi dalla Liberazione, il 22 giugno 1946, un’amnistia a firma dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti aprì una porta, che si spalancò grazie ad una scandalosa applicazione e dalla quale uscirono in massa i principali responsabili del Ventennio Fascista.
La mancanza di una “vera” giustizia, verso i crimini commessi, condizionò il dopoguerra per molti anni e fu una delle cause che impedì alla nostra società la condivisione di una comune identità repubblicana.

Per saperne di più:

L’amnistia Togliatti di Mimmo Franzinelli Mondadori

Giustizia penale e guerra di liberazione di Guido Neppi Modana

Il sangue dei vincitori di Massimo Storchi Aliberti Editore



Trascriviamo di seguito la parte principale di una sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Ivrea .

Essa è stata emessa nei confronti di Del Corto Gianfranco, sotto-tenente del 4° Regg. Alpini, 2° Compagnia, Divisione Littorio, accusato dell’uccisione del parroco di Torrazzo, don Francesco Gabrio e di 3 altre persone ritenute a torto partigiani.

L’imputato al momento della sentenza è latitante, colpito da mandato di cattura del 27 agosto 1945.

FATTO E DIRITTO

E’ stato che nel pomeriggio del 15 novembre 1944, don Franco Gabrio, parroco di Torrazzo da soli trentasettegiorni, avendo inteso sparare in vicinanza della provinciale Ivrea-Biella ed appreso che erano stati catturati alcuni ostaggi, vestita la stola sacerdotale e munito del rituale vasetto di olio santo andò sul luogo ivi accertando che un reparto repubblichino aveva proceduto al fermo di due uomini, Carlo e Giovanni Menaldo e di due giovani Gariglio Arduino e Verdoia Mercurio, trasportandoli nella vicina cascina Olivotti.
Il Gabrio aveva cercato di avvicinare gli or detti quattro fermati per intercedere a loro favore, ma n’era stato impedito. Si era portato allora al bivio per Torrazzo e Biella assistendo alla sfilata del reparto che traeva seco i quattro fermati al cui indirizzo egli aveva fatto, con mano, un cenno di saluto.
Ma appena erano passati dinanzi a lui, dalla coda della colonna era improvvisamente partita all’indirizzo del Gabrio una raffica d’arma da fuoco che lo aveva abbattuto al suolo cagionandone la morte per dissanguamento.

Del tragico evento si sparse immediatamente la voce e subito il giorno dopo, alcuni militari del reparto repubblichino passati nelle formazioni partigiane, avevano dichiarato che uccisore di don Gabrio era stato certo tenente Dal Corto.
Quindici giorni dopo detto tenente trovandosi da qualche tempo nel territorio di Bollengo e poiché alcuni suoi alpini erano passati ai partigiani, accompagnato da alcuni soldati ed un caporale o caporal maggiore, si era messo in giro per le campagne per rintracciarli.
In quella stessa sera, 1 dicembre 1944, il quarantenne Gaido Giovanni con il proprio garzone ventitreenne Bond Michele, Cossavella Pietro ventinovenne e Ceresa Rossetto Giuseppe diciottenne, erano convenuti nella cascina di tal Igino Defrancisco per aiutarlo, dovendo una di lui mucca partorire. In abiti borghesi e completamente inermi, avevano sostato nella cascina al piano terreno e nell’attesa dell’evento si erano messi a giocare a carte con il Defrancisco.
Si erano improvvisamente presentati alla cucina, quattro militari con un graduato ed avevano chiesto del padrone e cosa facesse. Il Defrancisco subito fattosi dinanzi aveva dichiarato loro che attendeva il parto della mucca.
A tal risposta i militari, che avevano il cappello con la penna da alpini si erano fatti accompagnare nella stalla da uno di essi e toccando il petto della mucca si erano accertati della veracità dell’assunto del Defrancisco.

Usciti dalla stalla e nel ripassare per il cortile della cascina uno dei militari si era affacciato alla finestra della cucina e ne aveva spalancato le persiane constatando che vi si trovavano le summenzionate quattro persone. A tale constatazione il graduato aveva immediatamente puntato su di loro il suo fucile diffidando a non muoversi, subito incaricando un soldato di andare a chiamare il tenente. Dopo breve tempo dieci minuti circa, era comparso il Del Corto il quale aveva chiesto al Defrancisco per quale ragione i quattro si trovavano nella sua casa. Il Defrancisco aveva reiterato la spiegazione poco prima riferita ai militari, ma il Del Corto obbiettando che invece si trattava di “un covo di banditi” aveva estratto la propria rivoltella facendo fuoco, senza null’altro aggiungere, sui quattro disgraziati. Due di essi, il Ceresa Rossetto ed il Bond si accasciavano esamini, mentre il Gaido ed il Cossavella (quest’ultimo già ferito ad un braccio) cercavano di fuggire: il primo verso il cortile, il secondo sul dietro della cucina. Il Gaido veniva però subito freddato appena sul limitare dell’uscio mentre il Cossavella veniva parimenti abbattuto da altri colpi poco lungi.

Prima di allontanarsi il Dal Corto ed i suoi uomini si impadronivano dei documenti personali che il Bond ed il Ceresa Rossetto avevano indosso e che accertavano della loro regolare posizione ai fini degli obblighi militari.
La notizia dell’eccidio, rapidamente propagatasi aveva commosso profondamente la popolazione di Bollendo al punto che o stesso commissario prefettizio repubblicano si era visto costretto ad affiggere manifesto per annunziare che aveva denunciato il responsabile del “terribile assassinio” dei “quattro buoni ed onesti cittadini e lavoratori e rassegnate per protesta le dimissioni dalla carica e ne avrebbe fatto seguire anche quella dal partito se l’ingiustificato e atroce delitto fosse dovuto rimanere impunito.
In quella stessa sera molti abitanti di Bollendo ( i fratelli Giuseppe e Giacomo Gagliani, Lagna Alessandro e Bravo Florinda) erano stati fatti oggetto di minacce di violenza e la Bravo arrestata ad opera di un gruppo di militari di cui faceva parte il predetto Dal Corto.

Il giorno seguente 2 dicembre, l’autorità giudiziaria accadeva sul luogo per la ricognizione sui quattro cadaveri e per raccogliere le prime informazioni.
Successivamente il comando della Divisione “Littorio” ordinava che a carico del Dal Corto si procedesse penalmente. Contro di costui il Procuratore militare emetteva ordine di cattura, che non veniva però eseguito per persistente e reiterato rifiuto del Comandante del reggimento sotto il pretesto d’imprescindibili esigenze di servizio.
Questi fatti che la Corte ritiene accertati dai deposti assunti in dibattimento e per la lettura degli atti permessi dalla legge.
Ed infatti, quanto all’uccisione di don Gabrio il 15 novembre 1944, vi sono i deposti dei due Menaldo, il Verdoia, e Gariglio (vale a dire dei quattro fermati dalle truppe repubblichine) nonché di don Anselmino Fiotto e Brun.

Il Verdoia ed il Gariglio fecero esplicitamente il nome del tenente Del Corto quando rilasciarono ai carabinieri le dichiarazioni che hanno oggi confermato (vedi fol.41.44) ed il Gariglio ha anche precisato che detto tenente si trovava in coda alla colonna da dove era partita la raffica micidiale.
Meno espliciti i due Menaldo, ma anch’essi affermanti che i colpi che uccisero don Gabrio partirono dal fondo della colonna laddove, secondo il Menaldo Carlo (vedi fol 42) trovatasi un tenente “rosso di faccia e di capelli” vale a dire con le stesse caratteristiche che designano il prevenuto odierno. Non nasconde la Corte che una certa discordanza si nota fra i deposti del Menaldo Giovanni che a sparare sul parroco era stato “un soldato su ordine del tenente”, mentre il Verdoia ha parlato di una raffica in senso esecutivamente oggettivo, ed il Menaldo Carlo ed il Gariglio di una raffica dalla coda della colonna la dove si trovava il tenente. Sennonché tali discordanze paiono alla Corte non difficilmente superabili appena si ponga mente al particolare stato d’animo in cui i quattro testi si trovavano in quel triste frangente. Erano infatti, stati fermati, catturati, ingiuriati, percossi, minacciati di fucilazione indi incolonnati ed avviati verso un destino ignoto; in condizioni di spirito, quindi le meno adatte per una pacata ed esatta osservazione di quanto stava accadendo accanto a loro. Ma a confermare la Corte nel convincimento che autore dell’uccisione del parroco fu Del Corto e non altri, vi sono i deposti del Brun Anselmino e Fiotto. Il Brun, già compagno d’internamento in Germania del prevenuto, ha innanzi tutto deposto che il reparto cui Del Corto apparteneva, il 15 novembre 1944, si trovò proprio a passare in marcia di trasferimento da Ivrea a Mongrando, per la località dell’eccidio- La circostanza è d’importanza capitale giacchè accertata la presenza del giudicabile sul luogo controlla quindi i deposti dei quattro fermati. Non solo, ma il Brun ha anche confermato le dichiarazioni rese ai carabinieri (vedi fol 21) laddove ebbe ad affermare di avere inteso il Del Corto, parlando con i colleghi, dire di essere stato lui l’uccisore di don Gabrio.
Ha inoltre aggiunto di aver avuto conferma di ciò dal tenente medico e da altro ufficiale del corpo.

Ha infine spiegato che gli stessi partigiani avevano partecipato con lettera al comando degli alpini di voler vendicare il sacerdote trucidato, uccidendo il tenente biondo di cui non conoscevano il nome e che al seguito di tale minaccia il Del Corto era stato trasferito al comando di reggimento ad Ivrea. I testi don Anselmino e Fiotto hanno parimenti deposto di avere immediatamente appreso, da alcuni alpini passati nelle file partigiane, che a uccidere il parroco era stato il tenente Del Corto; ‘Anselmino ha anche asserito con esplicita dichiarazione di certo rag.Ramella già appartenente alla 5° Divisione d’assalto “Garibaldi” nei sensi su esposti.. Si è pertanto in presenza di un complesso imponente di particolareggiate circostanze concordanti e tutte convergenti a dare certezza della colpevolezza del prevenuto per l’omicidio del parroco.
La capacità soggettiva del prevenuto di simile misfatto trova altronde conferma nel successivo ed ancor più efferato eccidio di Bollengo per il quale le prove a di lui carico possono veramente definirsi incontrovertibili.

Già il giorno seguente, 2 dicembre il Defrancisco proprietario della cascina dove l’eccidio era stato consumato, riferiva (vedi fol 24) che il tenente vestiva una giubba a vento era alto circa mt.1,70 dall’apparente età di trent’anni, biondo di capelli e con faccia ovale. Connotati questi che corrispondono a quelli di Del Corto siccome riferiti dal tale Brun che lui lo conosceva e quali si evincono dalla stessa fotografia in atti, e in piena rispondenza con quelli riferiti dagli altri testi con la precisione, concordemente ammessa che il De Corto, in quell’epoca portava i baffetti. Ed appena venti giorni dopo tutte le persone…. non esitarono un’attimo ad indicare esplicitamente il Del Corto che già da qualche giorno si trovava di presidio a Bollendo quale autore dell’eccidio e l’indicazione fu così precisa, concorde e perentoria che lo stesso comandante della “Divisione Littorio” cui il Del Corto apparteneva, non potè fare a meno di ordinare che fosse aperto contro di lui il procedimento penale arenato per l’ostruzionismo veramente inqualificabile del superiore diretto dell’inquisito che ne rifiutò la consegna. Al dibattimento i testimoni hanno nella fotografia in atti, riconosciuto l’autore dell’eccidio con tutta pienezza, ove si escluda una certa perplessità da parte della Colossio Clotilde.

Ciò fermato la Corte ha però osservato che il primo capo d’imputazione dev’essere variato in quello di aiuto al nemico, pertanto dall’art.51 c.p.m.g.

E’ infatti certo che il 15 novembre 1944, allorquando venne ucciso il parroco don Gabrio, il Del Corto si trovava a compiere un rastrellamento in quella zona di Torrazzo dove abbondavano e stazionavano le formazioni partigiane. Lo hanno esplicitamente dichiarato i testi don Anselmino e Fiotto Celso ( fol.25) ed è oggettivamente comprovato dall’avvenuto fermo dei due Menaldo, del Verdoia e del Gariglio quali sospetti favoreggiatori dei partigiani e dalla nutrita sparatoria la quale aveva determinato l’intervento sul luogo del buon parroco Gabrio nell’eventualità che feriti o fermati destinati alla morte necessitassero dei supremi conforti della religione. Parimenti la sera dell’eccidio di Bollendo (11.12.1944) il Del Corto con il drappello dei suoi uomini, si trovava alla ricerca di alcuni alpini che, disertato le file repubblicane, si riteneva dai comandi nazi-fascisti, fossero passati in quelle partigiane o comunque fossero stati nascosti nelle cascine di civili parteggianti per il movimento di liberazione. Onde il Del Corto, se con l’una o con l’altra delle su esposte operazioni, compiva atti diretti a nuocere alle operazioni delle forze armate dello Stato legittimo italiano in quanto tentava di indebolire e neutralizzare l’azione dei partigiani in quell’epoca già riconosciuta dal predetto Stato italiano quali forze ausiliarie nella lotta contro il tedesco ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 del c.p.m.g.. Azione del Del Corto ricadente indubbiamente sotto le locuzioni di cui all’art.51 del summenzionato codice si tratta peraltro, nel riguardo del primo capo di imputazione, di una diversa qualificazione giuridica del fatto contestato che si estende anche e comprende azioni di rastrellamento; per nuovo che pare alla Corte ben applicabile il disposto dell’art.477 del codice di rito.
Ma la responsabilità del prevenuto, certa e completa, per il delitto di cui al già accennato art.51 c.p.m.g. per il semplice fatto di aver egli partecipato alle due azioni di Torrazzo e di Bollengo per rastrellare partigiani e presunti loro favoreggiatori e per rintracciare i disertori ed i loro pretesi ricettatori, deve essere inoltre e distintamente affermata anche per gli altri due capi di imputazione concernenti l’uccisione di don Gabrio ed il successivo eccidio di Bollendo. Perché è chiaro, a giudizio della Corte, che entrambi tali tragici eventi non avvennero affatto per necessità od in stretta, inscindibile, connessione con esse, siccome in dipendenza ed estrinsecazione di un fanatismo e settarismo politico che, anche per la piega presa dagli eventi bellici in senso sempre più sfavorevoli alle forze nazi-fasciste, andava lentamente compiendosi in folle e malvagia disperazione.

Se infatti, un poco nebuloso è apparso il dinamismo dell’azione che sbocco nella tragica uccisione del parroco di Torrazzo, è pur tuttavia indubbio che don Gabrio ebbe a trovarsi sul luogo e fu trucidato non già per prendere in qualche modo efficace parte all’azione partigiana contro le forze repubblicane cui pervenuto appartenne, ma per applicare i doveri del suo sacro ministero, come sta ad attestarlo inequivocabilmente la circostanza che seco aveva la stola, il rituale ed il sacro….illeggibile.

Ma l’eccidio di Bollendo, oggi rivissuto dalla Corte in ogni suo dettaglio, attraverso il deposto dei coniugi Defrancisco che ne furono diretti testimoni, non lascia neppure la possibilità del più tenue dubbio che possa altrimenti spiegarsi se non con la malvagia brutalità del prevenuto. Si trattava infatti di quattro civili in abiti borghesi e completamente inermi in atteggiamento per niente offensivo o minaccioso qualunque codeste apparisse agli occhi ed alla mente del Del Corto la supposta ragione della loro presenza nella tragica cascina. Presenza nella quale il prevenuto, con tutta facilità avrebbe potuto sincerarsi mediante l’eventuale esame delle carte….quelle carte che accertavano della loro regolare posizione anche ai fini degli obblighi militari imposti dal dispotico, illegittimo governo repubblicano e che perciò vennero dall’imputato e dai suoi dipendenti trafugate in quanto costituivano il più formidabile elemento di accusa contro di loro. Si è pertanto in presenza, quanto per l’uccisione di don Gabrio che per l’eccidio di Bollendo, di cui delitto di omicidio previsto e punito dal codice penale comune ed in concorso con l’aggravante dell’art.61 n°5 in dipendenza dello stato di guerra, come questa Corte ha costantemente ritenuto sussista del genere con la piena approvazione della Corte Suprema.

Per gli accennati omicidi non è più applicabile la pena di morte a seguito del d.l

10.8.1944 n° 224 entrato in vigore nell’Italia del Nord all’atto del passaggio di detta zona all’amministrazione italiana, vale a dire il 1 gennaio 1946.

In luogo della pena di morte deve quindi applicarsi l’ergastolo. Questa pena peraltro, resta assorbita da quella capitale, inflitta dall’art 51 Codice pen. Militare di guerra, che la Corte ritiene d’invocare, non ritenendo il Del Corto meritevole di attenuante alcuna, nemmeno di quelle generiche.. Deve condannarsi il Del Corto alle spese ed alla confisca dei beni, ove e, se possibile, per essersi esso messo al servizio del tedesco invasore e pensa che gli torni applicabile alcuna delle circostanze previste dall’art. 7 del 27.07.1944 n 159 e di cui è cenno nell’art. 1 d.l.lt 31.5.1945 n°364.
La Corte
Dichiara Del Corto Gianfranco colpevole:
-di aiuto al nemico con modificato il primo capo di imputazione.
-di quadruplice omicidio aggravato in persona di Ceresa Rossetto Giuseppe, Gaido Giovanni, Cossavela Pietro e Bond Michele
-di delitto di omicidio aggravato in persona del sacerdote Gabrio don Francesco.

Letti gli articoli 51 c.p.m.g in relazione agli art 5.9 dlt 27.7.44 n° 159 ed 1 d. l lt. 22.4.1945 142. 575. 61 in relazione il 30.11 1942 n 1365 ed 1 d.lt 10.8.1944 n 224, lo condanna alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena in essa pena assorbita quella dell’ergastolo per i due delitti di omicidio, alla confisca dei beni e alle spese.

Il Presidente Naldini Dott. Nello Ivrea 20 marzo 1946

Conclusione

La pena di morte non fu mai eseguita: Gianfranco Dal Corto era riuscito ad espatriare in Brasile. In seguito, la condanna venne trasformata in ergastolo; in data 22.2.1954 il Tribunale di Ivrea dichiarò commutata in 10 anni la pena dell’ergastolo.

Il D.P.R. 11.7.1959 n 460 in materia di reati politici, stabilì che i reati fossero prescritti anche ai condannati che si trovavano all’estero, previa presentazione alle Autorità Consolari.
Gianfranco Del Corto si presentò al Consolato Italiano il 28 agosto 1959.

La Corte di Assisi d’Appello di Torino in data 8 ottobre 1959, in ottemperanza al su indicato decreto dichiarò estinti per amnistia i reati di aiuto al nemico e di omicidio plurimo per i quali era stato condannato il Del Corto, che ottenne la piena libertà, senza aver scontato un solo giorno di carcere.



Articolo pubblicato su “Canaveis” n° 18

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