1897 Scioperi e tumulti nella Manifattura di Pont Canavese. ( Emilio Champagne)
Il Canavese è una subregione posta a nord di Torino che durante il corso del secolo XIX sviluppò una fiorente industria tessile, sino a diventare uno dei poli dell’industria cotoniera nazionale assieme al Verbano e al Novarese.
Già nei primi anni dell’Ottocento (1824) era attiva nel paese di Pont, posto ad una quarantina di km da Torino, una manifattura per la filatura del cotone. Fondata dai fratelli Dupont di Annecy diverrà nel volgere di una ventina di anni la più importante manifattura del regno sabaudo assumendo la denominazione di Manifattura Reale di Pont & Annecy
Costituita da due stabilimenti posti alla confluenza di due torrenti, l’Orco ed il Soana, dai quali ricavava la forza motrice era attrezzata per la produzione di tutto il ciclo di lavorazione del cotone: dalla filatura alla tessitura. Nel 1846 erano già più di 800 i lavoratori impiegati e sfioreranno le 2500 unità alla fine del 1800.
Questa manifattura fu produttiva, con alterne fortune, sino alla crisi di tutto il settore tessile italiano avvenuta negli anni ’70 del Novecento.
Nella sua storia secolare ritroviamo le vicende dell’industria cotoniera, ma anche quelle del movimento operaio non solo canavesano, ma nazionale.
Infatti alla Manifattura di Pont avvennero i primi scioperi, come testimonia una relazione, del sindaco di Pont in data 18 agosto 1860 che parla delle “sciopererie” fatte dagli operai per migliorare la loro condizione: non dovevano essere stati cosa da poco se provocarono l’interessamento dell’intendente di Ivrea che si può paragonare al prefetto attuale. Se di questa vicenda conosciamo poco, molto ben documentate furono invece le lotte ispirate dai socialisti nel 1897 che provocarono tumulti e il conseguente arresto e condanna di una ventina di lavoratori; cruenti lotte vi furono nel triennio 1906-1908 con scioperi della durata per noi ora inconcepibili di due mesi e che ebbero la solidarietà del movimento dei lavoratori piemontesi e nel turbolento periodo conosciuto come il “biennio rosso”, allorchè si sperimentò l’occupazione dello stabilimento, sollevando clamori che raggiunsero l’aula del Parlamento e che precedette di 6 mesi il movimento di occupazione delle fabbriche.
Avremo modo di approfondire in seguito questi importanti avvenimenti in altrettanti articoli.
Nel 1897 alla Manifattura di Pont Canavese un grande sciopero coinvolse l’intero paese e si concluse con una severa repressione.
Di tutto questo non parlarono i giornali ne si trova traccia nella “grande” storia e ciò perché la ricostruzione storica degli albori del movimento operaio e delle sue lotte, in zone decentrate e provinciali come quella ove sorgeva la manifattura di Pont è cosa ardua, per la scarsità di documenti e di notizie giornalistiche, in quanto la stampa dell’ottocento si occupava poco di ciò che capitava al di fuori della cinta daziaria delle grandi città.
Del lontano evento restarono pochi e confusi ricordi nella tradizione orale, i quali però permisero, un secolo dopo, di ricostruirne le vicende in modo preciso e dettagliato grazie al ritrovamento fra le numerose carte dell’archivio di Camillo Olivetti, il fondatore dell’omonima ditta, di tutta la documentazione, compresi, in copia, gli atti del tribunale ( interrogatori, rapporti delle forze dell’ordine, testimonianze ecc.) altrimenti non più disponibili nelle sedi ufficiali.
Dal voluminoso dossier e soprattutto dai verbali di interrogatorio dei protagonisti e dei testimoni emergono in modo chiaro e preciso le condizioni di vita dei lavoratori e le difficoltà che il nascente movimento operaio ha dovuto superare nella sua lunga strada di emancipazione.
Questa la sintetica ricostruzione degli avvenimenti.
Nel 1897 la manifattura di Annency e Pont era costituita da due stabilimenti: il primo posto all’imbocco della Val Soana era destinato alla filatura e occupava 1300 lavoratori di ambo i sessi. Il secondo distante circa 300 metri era posto sulle rive del torrente Orco e destinato alla tessitura vi trovavano lavoro più di 700 tessitrici. In totale più di 2000 i lavoratori in maggioranza di sesso femminile.
All’epoca dei fatti direttore dello stabilimento era il comm. Giovanni Leuffer che si avvaleva come collaboratori di tre vice direttori e di personale tecnico originari della provincia di Milano, che si erano trasferiti a Pont con le loro famiglie ed abitavano in due palazzine prossime allo stabilimento. Questi “milanesi” come erano chiamati, non godevano di popolarità tra i lavoratori in quanto erano ritenuti arroganti e sprezzanti nei loro confronti e come vedremo saranno la causa diretta delle proteste. Un altro attore suo malgrado di questa vicenda fu il parroco di Pont don Giacomo Carli di 43 anni.
Amico del comm. Leuffer e in buoni rapporti con i dirigenti della manifattura egli fungeva un po’ da ufficio di collocamento, segnalando persone bisognose di lavorare; a detta dei lavoratori qualche volta approfittava del suo ruolo per discriminare chi non era osservante, sino ad essere accusato di aver fatto licenziare un lavoratore perché conviveva con una donna senza il vincolo del matrimonio.
I motivi del malcontento comunque erano quelli sociali: orari di lavoro che arrivavano sino alle 12-13 ore giornaliere e un sistema di retribuzione basato sulla quantità di filato o sulla lunghezza delle pezze che ogni operaia riusciva a fare nell’arco della giornata lavorativa. Questo sistema di cottimo faceva si che in presenza di cause anche non dipendenti dalla volontà del lavoratore, come la mancanza della forza motrice, l’inefficienza delle macchine, o la cattiva qualità delle materie prime come il cotone potesse diminuire la produzione giornaliera e la quantità del salario percepito ritenuto quindi insufficiente non solo per condurre una vita dignitosa, ma per la stessa sopravvivenza.
Ad aggravare questo stato di cose fu anche l’arrivo dei “milanesi” come erano chiamati i vice direttori e capi sala che erano appunto della provincia di Milano.
La loro severità sconfinava spesso nella prevaricazione rendendoli impopolari e avvelenando i rapporti con le maestranze.
Già nel 1893 vi era stato uno sciopero nello stabilimento della sez. Orco e le operaie avevano protestato davanti alla palazzina dove il vice-direttore Cesare Macchi abitava con la famiglia. Allora la protesta rientrò quasi subito grazie ai buoni uffici del Sindaco di Pont e con qualche promessa fu ripreso il lavoro. L’arroganza del vice direttore Macchi però continuò, come perdurò il malcontento.
Al Macchi vennero attribuite anche delle frasi sprezzanti verso alcune operaie che si lamentavano della paga che non permetteva di vivere e di dar da mangiare ai propri figli. Egli avrebbe detto che il salario era sufficiente e che con un po di polenta e di latte si poteva vivere; riguardo ai figli, se non riuscivano a mantenerli avrebbero fatto meglio ad abbandonarli all’orfanotrofio o di gettarli nel vicino torrente Orco. Un altro dirigente Carlo Introzzi spinse con violenza fuori dal suo ufficio tre tessitrici che erano venute a reclamare ciò che era loro dovuto.
Questi atteggiamenti e soprattutto le frasi pronunciate dal Macchi, passarono di bocca in bocca tra i lavoratori e fecero crescere il malcontento verso i dirigenti.
Da un po’ di mesi poi, il cotone era di pessima qualità con fibre molto corte che rendevano difficile la lavorazione in quanto i fili si spezzavano continuamente costringendo le tessitrici a continui interventi e alla fine della giornata, dopo aver lavorato di più, si trovavano a percepire una paga minore.
Il giorno 11 marzo 1897 una delegazione di operaie si recò dal direttore comm. Leuffer per lamentarsi del modesto salario che percepivano a causa del cotone scadente e il direttore garantì il suo interessamento, facendo delle promesse che sembrarono accontentare le delegate.
Tornate al lavoro le tessitrici discussero lungamente con le colleghe, le quali furono evidentemente deluse dall’esito del colloqui e non più disposte a credere alle promesse del direttore, decisero di entrare in sciopero.
La mattina del giorno successivo, il 12 marzo, le tessitrici della sezione Orco entrarono regolarmente al lavoro ma rimasero immobili di fronte alle macchine. Il direttore Leuffer arrivato precipitosamente, cercò di avere delle spiegazioni, ma non ottenne nessuna risposta: tutte rimasero mute. Al direttore non restò che dare ordine ai capi sala di attendere sino alle ore 9 per vedere se riprendevano il lavoro. L’ultimatum scadde, e constatato che nessuna aveva intenzione di lavorare, non rimase che chiudere lo stabilimento.
Usciti dalla manifattura le tessitrici in sciopero si diressero verso il secondo stabilimento distante poche centinaia di metri, riuscendo a convincere questi lavoratori ad abbandonare il lavoro ed a unirsi a loro nella protesta.
Durante la giornata insieme formarono un corteo che iniziò a percorrere le vie di Pont al grido di “ a morte i ricchi, viva il socialismo” e “ abbasso i milanesi “.
Verso le ore 15 arrivarono davanti allo stabilimento Orco, gridarono e cominciarono a volare le prime pietre che infransero le vetrate. Dopo un po’ arrivò il direttore Leuffer con un suo vice e vennero presi a sassate e a malapena si rifugiarono dentro lo stabilimento. Il corteo riprese a girare per Pont ingrossandosi di ora in ora . Venne preso a sassate il Circolo Unione di fede monarchica che aveva come presidente il nipote del direttore.
Finestre e infissi vennero rotti e anche il bigliardo danneggiato.
Intanto i quattro carabinieri di stanza in paese, corsero a cercare il sindaco Martino Moglia e assieme, non potendo fare altro, tentarono di calmare gli animi .
All’imbrunire i lavoratori si diressero verso la chiesa e dividendosi in due gruppi la bersagliarono di pietre, mandando in frantumi le vetrate e gridando frasi ostili sul conto del pievano del tipo:
“Vieni fuori sporcaccione, che te la facciamo vedere noi”
Alcuni entrarono in canonica, dove terrorizzati si trovavano il parroco don Carli, un suo nipote e un chierichetto. L’incursione si limitò alle minacce e a scacciare a pedate il chierichetto.
Ormai la rabbia e l’esaltazione presero il sopravvento e probabilmente la protesta andò anche oltre al desiderio degli organizzatori. Verso le sette di sera, vennero infranti molti lampioni a petrolio oscurando il paese e gli scioperanti a cui si erano aggiunti anche altri paesani si recarono ad assediare le palazzine dei dirigenti che nel frattempo avevano raggiunto le loro residenze. Qui avvennero i danneggiamenti più gravi: vetri, porte, tegole anche le facciate delle case vennero danneggiate. Alla palazzina del vice direttore Macchi riuscirono a sfondare la porta, ma il Macchi insieme alla suocera, alla moglie, al cognato riuscirono a scappare usando una scala a pioli e passarono in un abitazione vicina.
I disordini continuarono sino alle ore 23 assaltando e danneggiando anche le palazzine degli altri vice direttori. Alla fine si contarono danni intorno alle 1000 lire.
La mobilitazione continuò per tutto il giorno successivo e gli scioperanti si attivarono affinché nessuno tornasse al lavoro.
Nel frattempo giunsero nel paese numerosi agenti di polizia e una compagnia di fanteria della caserma di Ivrea e non si ebbero più incidenti.
Il giorno 14 marzo, domenica, si svolse in piazza Crateri un affollato comizio, nel quale vennero dettate le condizioni per riprendere il lavoro.
Esse comprendevano la richiesta di aumenti salariali, il ritiro dei licenziamenti effettuati negli ultimi sei mesi, miglioramenti normativi ecc. e soprattutto il licenziamento immediato dei direttori degli stabilimenti.
Stilato il documento, un lavoratore salì sul tavolo e lesse le richieste, che la folla approvò con grida e applausi.
Vennero anche nominati quattro delegati, che con il sindaco Moglia e l’ispettore di Pubblica Sicurezza si recarono dal direttore Leuffer il quale però si rifiutò di riceverli con la scusa che non erano dipendenti della manifattura. La rappresentanza tornò dagli operai spiegando il fatto e invitandoli a nominarne altri ma gli operai insistettero perchè il direttore trattasse con questi e fece loro dire che lasciavano 24 ore di tempo al Leuffer per decidere se voleva trattare o no.
Ma la risposta dal padrone della Manifattura non arrivò mai.
Arrivarono invece i carabinieri che nella notte passarono all’azione, fermando un numero considerevole di persone, delle quali 14 vennero arrestate.
La protesta, privata dal nucleo più combattivo, fra minacce e intimidazioni si esaurì velocemente così come era nata.
Il processo si svolse il 16 aprile 1897 presso il tribunale di Ivrea.
Camillo Olivetti all’epoca giovane ma qualificato aderente al Partito Socialista, in contatto con Treves e Turati nonché ispiratore dei circoli socialisti canavesani, nonostante si dicesse estraneo agli avvenimenti di Pont, tentò la costituzione di un qualificato collegio di difesa, come testimoniano le lettere intercorse con affermati avvocati della zona. Nonostante ciò, le condanne furono severe: quasi 4 anni di reclusione per 13 operai.
L’accusa si sforzò di dimostrare che i lavoratori erano stati sobillati da elementi socialisti esterni alla fabbrica, in intesa con il circolo socialista locale che ne guidò la lotta e diresse la trattativa.
Il tribunale individuò in Giovanni Grosso “di carattere irrequieto e prepotente “ uno dei capi del socialismo a Pont in quanto furono trovati nella sua abitazione un’abbondante raccolta di giornali, quali “L’Avanti”, “L’Asino”, “Il Cacasenno” “Il Grido del Popolo” e una quantità di medaglie di Carlo Marx. Altro socialista locale era Filiberto Silvestro, anche nella sua casa furono trovate carte e pubblicazioni socialiste, entrambi non negarono l’appartenenza al partito, ma si dichiararono non responsabili delle violenze e danneggiamenti, affermando di essere intervenuti su invito dei lavoratori per formulare le richieste da presentare alla direzione e rappresentarli nella trattativa. Il Silvestro indicò anche testimoni a suo favore, ma ciò non valse a fargli evitare la pena.
Probabilmente negli eventi del 12 marzo 1897 la protesta degenerò, come spesso accadeva in quegli anni e l’ancora fragile organizzazione del partito socialista e delle leghe operaie non riuscì a incanalare la protesta su obbiettivi magari limitati ma concreti. Erano frequenti in quegli anni, queste fiammate improvvise di protesta, che avvenivano senza coordinamento e come risultato provocavano la serrata da parte dei padroni e l’occasione alle forze reazionarie per scatenare la repressione.
I lavoratori della Manifattura di Pont Canavese dagli eventi del marzo 1897 uscirono sconfitti, ma impararono che l’organizzazione è fondamentale: negli anni successivi fondarono la lega operaia che negli anni successivi si irrobustì, per guidare, nel 1907, i lavoratori della Manifattura di Pont Canavese in un altra importante lotta dagli esiti più positivi.
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