CAMILLO OLIVETTI l’industriale socialista
Quando Camillo Olivetti raggiunse la piena maturità e si laureo al politecnico di Torino in Ingegneria Industriale, nel dicembre del 1891, era un giovane di 23 anni di famiglia benestante e con la possibilità di vivere agiatamente amministrando le sue case e le sue tenute sparse per il Canavese. Ma ciò che per altri sarebbe stata una condizione invidiabile non lo era per il temperamento di Camillo.
Lui aveva un'innato e profondo sentimento di giustizia sociale che lo portò sin dai tempi dell’università, ad aderire al socialismo, nel quale vedeva la possibilità di elevazione delle masse popolari e la correzzione di molte storture della società italiana.
Il giovane Camillo provava anche un grande interesse per tutto ciò che accadeva nel mondo e sopratutto voleva fare delle esperienze, che allargassero gli orizzonti limitati del mondo provinciale nel quale viveva.
Nel 1892, partì per un soggiorno di qualche mese a Londra, dove farà l’operaio in una manifattura, e dove oltre ad impratichirsi della lingua verrà a conoscenza del più evoluto mondo industriale e sindacale inglese.
Al ritorno gli si presentò un’opportunità che non si lasciò sfuggire: Galileo Ferraris, un suo professore di università, fu incaricato dal governo di rappresentare l’Italia nel comitato che preparava il Congresso di Chicago sull’elettricità, ma siccome non padroneggiava bene la lingua inglese si ricordò del suo allievo Olivetti che proprio da poco era rientrato da Londra e lo invitò ad accompagnarlo.
Olivetti accettò con entusiasmo e il soggiorno americano al seguito di Galileo Ferraris fu determinante per la sua futura attività di industriale. In America conobbe molte persone importanti e s'appassionò a quella nuova forza rivoluzionaria che era l’energia elettrica e alle enormi possibilità date dalla sua applicazione in campo industriale.
Tornato in Italia, assieme a due colleghi di università, attrezzò una piccola officina per la produzione di strumenti per la misurazione elettrica.
Anche nel campo industriale Olivetti era un anticipatore. L’energia elettrica in quegli anni in Italia, cominciava appena a diffondersi e molti a Ivrea scossero il capo a commento delle Iniziative di Camillo che già creava scalpore per le sue idee, il suo modo di vestire, e perché girava in bicicletta invece di usare il calesse, come si conveniva alle persone del suo censo.
Camillo Olivetti, uomo di ingegno e futuro industriale di successo, aveva una grande particolarità che lo distingueva da tutti gli altri: nel suo lavoro e nelle sue attività cercava di essere fedele a quelli che erano i suoi principi e che l’industria doveva avere come scopo il progresso del paese e delle persone che vi lavoravano.
Il socialismo di Olivetti nasceva da una precisa concezione del posto che il lavoro è predestinato a conquistare nelle società moderne e si nutriva in pari tempo di larghe esigenze sociali e di precise rivendicazioni di democrazia politica.
Olivetti non ebbe forse tempo, di studiare i teorici del socialismo, ma egli aveva delle convinzioni molto ferme, sulle relazioni che corrono fra le classi sociali, sulla solidarietà, e fu socialista perché nel socialismo meglio di altri movimenti di pensiero del suo tempo egli sembrava di identificare le sue convinzioni.
In una pagina autobiografica Camillo Olivetti spiega le ragioni della sua adesione al socialismo e della attività svolta :
“Mi cacciai forse un po’ imprudentemente, ma in buona fede, nella politica. Era allora (1894-\1895) gli anni più nefasti per la libertà d’Italia. Vi era un partito nuovo che sorgeva con nuovi uomini, con nuovi ideali lontani, non raggiungibili ma onesti e sinceri. Vi erano dei doveri immediati da compiere, dei pericoli da superare per non lasciar spegnere la libertà in Italia. Io , forse anche per dare nuovo corso alla mia agiata esistenza, mi iscrissi al partito socialista e mi misi a capofitto nella lotta, per quanto le gravi occupazioni che l’industria da me creata forse senza sufficiente preparazione, lo stare in una piccola e tranquilla città e una certa quadratura della mia mente, abbiano impedito di prendere una parte preminente nelle lotte di quei giorni”
In quegli anni di fine secolo Olivetti fu il primo e più qualificato rappresentante dell’idealità socialista in Canavese. Intrattenne rapporti amichevoli con i massimi dirigenti del socialismo italiano da Filippo Turati a Claudio Treves, ma soprattutto discuteva e dialogava con i lavoratori. Festeggiava il 1 maggio in fraternità con persone di ceto inferiore, e quest’abitudine conservò negli anni, anche quando cominciò ad affermarsi come imprenditore.
Fu probabilmente l’unico che al 1 maggio offriva pranzo ai propri operai.
La sua militanza fu attiva. Nel 1894 iniziò la corrispondenza da Ivrea per “Il Grido del Popolo” il battagliero settimanale dei socialisti torinesi in quegli anni esposto a continui sequestri di polizia. I sui erano articoli di cronaca politica locale, ma qualche volta riflettevano il suo pensiero e la sua esperienza così come quello pubblicato il 13 ottobre 1894 intitolato. ”I sindacati negli Stati Uniti”. In esso evidenziava l’inarrestabile tendenza del capitalismo alla concentrazione monopolistica e traeva da questo lo spunto per riaffermare la sua rigorosa fede collettivistica.” Noi socialisti dobbiamo rallegrarci di veder formarsi e prosperare tali monopoli, perché essi hanno dimostrata l’assurdità della scuola liberista, la possibilità, e la convenienza del socialismo collettivista e soprattutto perché il giorno in cui noi saremo abbastanza forti da mettere in pratica le nostre teorie, noi troveremo già fatta la maggior parte del nostro lavoro, e con un’espropriazione facile di pochi individui noi saremo in grado di addivenire senza gravi turbamenti alla socializzazione dei mezzi di produzione”
La concezione socialista di Olivetti non era dunque solo permeata di un generico sentimento umanitaristico, ma di precise convinzioni di economia e del ruolo che le classi lavoratrici dovevano avere nelle società moderne e nella gestione diretta della democrazia politica. Era convinto che i lavoratori dovessero entrare direttamente nella gestione della politica, non delegando ad altri la loro rappresentanza.
Nel 1898 si dovevano eleggere i consigli comunali, ed a Ivrea la sezione socialista discuteva se presentarsi con una propria lista.
Olivetti si batte affinché ci fosse, tra i candidati, una cospicua rappresentanza di operai, ma vista la difficoltà a trovarli alla fine la sezione socialista decise di astenersi dal partecipare alle elezioni.
Questo fu l’amaro commento che Olivetti inviò al “Il Grido del Popolo” :
“Dopo cinque (dico cinque) sedute, dopo aver deliberato solennemente il via teorica che il Partito Socialista di Ivrea avrebbe preso parte alle elezioni con una lista propria, quando si venne alla scelta dei candidati non si poté combinare nulla. Una lista socialista, dato l’ambiente, per avere un carattere proprio avrebbe dovuto essere una lista di uomini nuovi, rappresentanti anche ceti che non avevano avuto prima d’ora rappresentanti in Consiglio.
Per due nomi tutti si trovarono almeno apparentemente d’accordo ; ma vedi caso entrambi appartenevano a quella classe borghese che sempre aveva dato i consiglieri comunali a Ivrea. Si trattava di scegliere gli altri nomi che soli avrebbero dato un carattere proprio alla lista; si trattava di scegliere degli operai. Alcuni, che forse avrebbero potuto accettare, non vollero, per ragioni private che noi non possiamo sindacare; e fin qui nulla di male, perché io credo che nessuno abbia il diritto di imporre ai compagni un danno probabile; ma, a parer mio, agirono malissimo questi stessi operai, che, non avendo potuto accettare essi la candidatura, impedirono con una sorda opposizione e con sofismi sulla brutta figura che operai giovani e non eleganti parlatori avrebbero fatto fare al Partito in Consiglio comunale.
Ora io non sono del parere di quei socialisti che credono o per lo meno predicano, che un operaio, solo perché operaio, anche se ignorante, o impulsivo, o stupido, valga come candidato del Partito meglio di ogni altro; ma credo che quando si vuole imprimere ad una lista un carattere ben definito e vi sono nel Partito degli operai che posseggono--quello che è difficile trovare in tutte le classi--del buon senso, sia uno sbaglio il non servirsi di questi elementi, solo perché non sarebbero forse capaci di fare di bei discorsi..
E così, per timore di una brutta figura ipotetica, se ne fece una bruttissima reale, in una lotta in cui il solo partito che avrebbe potuto presentarsi alla popolazione, lottando, per le idee, non per persone, preferì una comoda astensione, mostrando del resto di essere in questo all’unisono con i sentimenti della borghesia di Ivrea il cui gran da fare è stato sempre quello di non far nulla.” (5 dicembre 1898)
L’impegno politico di Camillo Olivetti svolto sempre in prima persona e per il prestigio di cui godeva in Città, non solo negli ambienti socialisti, non poteva non preoccupare le autorità politiche che iniziarono a spiarne i movimenti e indagare sulle amicizie.
Cominciarono a giungere alla prefettura di Ivrea, segnalazioni sui suoi spostamenti e richieste di informazioni sulla famiglia e i sui trascorsi.
Il sottoprefetto di Ivrea, sapeva che Camillo era un uomo dalla moralità ineccepibile, ma ormai la macchina poliziesca era in moto e così nell’aprile del 1897 lo schedò sotto la qualifica “socialista” che valeva all’ora come “sovversivo”. Dobbiamo a questo atto la conoscenza di alcuni aspetti della sua militanza di socialista e di uomo:
“L’Olivetti è stimato in questa città per il suo carattere dolce, per la sua buona educazione, per la sua intelligenza svegliata, ed anche per la sua professionale coltura. E iscritto al Partito Socialista fin da quando faceva gli studi universitari ed ha molta influenza non solo nella regione Canavesana, ma anche presso la sede centrale del partito, per il suo, largo censo che gli permette di fare spesso delle sovvenzioni in favore dei compagni e della stampa socialista. E in continua corrispondenza con i più influenti uomini del partito, specie con quelli di Torino, Milano, Roma....Fece parte di disciolti circoli socialisti. Ora non ne esistono più nel circondario. Non collaborò con nessun giornale sovversivo: ora scrive spesso corrispondenze per il “Il Grido del Popolo” giornale ebdomadario socialista di Torino. Riceve quasi tutti i giornali socialisti, non tralascia alcun mezzo - quale instancabile propagandista - di insinuare le sue idee alla classe operaia, presso la quale ha avuto successo. Tenne conferenze pubbliche nell’ultimo periodo elettorale, durante il quale accompagnò e presento lui nei diversi paesi del Collegio di Ivrea, il candidato socialista Mario Bianchi di Milano. Ha preso parte a tutte le locali manifestazioni del partito socialista. Quale rappresentante dei socialisti canavesani prese parte al Congresso socialista di Firenze”
Se per le autorità Camillo Olivetti era un “sovversivo”, un potenziale pericolo per l’ordine costituito, lui, per carattere non era certo il tipo che viveva di sogni e stava ad aspettare che qualche cosa o qualcuno si occupasse del suo destino; ne aspirò ad una carriera politica che ha ragione avrebbe potuto realizzare.
Divenne imprenditore e lo divenne in un settore innovativo, rivoluzionario, dove tutto andava creato dal nulla, comprese la formazione delle maestranze non essendoci in Canavese esperienze precedenti.
Da anni si interessava di elettricità ed intuì la portata rivoluzionaria di questa scoperta e degli sviluppi che avrebbe potuto avere la sua applicazione nell’industria.
Olivetti elaborò un progetto audace e ricco di incognite: impiantare una fabbrica di strumenti di misurazione elettrica, la C.G.S. Tra i tanti problemi di ordine produttivo, finanziario e commerciale che comportava una produzione così specialistica non ultima era la formazione di manodopera specializzata, in quanto anche agli operai erano richieste capacità professionali superiori a quelle sommarie richieste dalla tradizionale industria tessile canavesana.
“ Nell’autunno del 1894, - scrive Olivetti- nella mia villa di Monte Navale, avevo intrapreso un breve corso elementare di elettricità per operai. Quel corso durò poco e probabilmente fu più profittevole per me che non agli allievi. A me insegnò già fin da all’ora una cosa che l’esperienza della vita mi confermò, e cioè che gli studi giovano solamente se chi li imprende ha intelligenza sufficiente per assimilarli e che persone poco istruite, ma che hanno l’intelligenza pronta e buona voglia di imparare possono riuscire meglio di gente molto più istruita ma meno intelligente e volenterosa”( gli Olivetti di B.Caizzi pag.21)
Con un piccolo gruppo di operai e tecnici iniziò la produzione nell’edificio di mattoni rossi costruito alla periferia di Ivrea.
Pochi a Ivrea credettero al successo della società fondata dall’eccentrico ingegnere, ma dovettero ricredersi. In pochi anni si consolidò e Olivetti in quella piccola industria plasmo gli operai che formarono più tardi, con la fondazione della fabbrica di macchine per scrivere, lo stato maggiore dirigenziale della nuova società.
Anche nella sua attività imprenditoriale Camillo Olivetti traspose le sue convinzioni, e la sua etica di socialista. Se nella società si batteva affinché i lavoratori accedessero al governo della cosa pubblica nella sua fabbrica sosteneva l’insegnamento tecnico e la formazione professionale per affinare i migliori, aprendo ad essi le più alte carriere.
“Debbo confessare- scriveva nel 1908- che i migliori operai che ho avuto, sono quelli che hanno fatto solo le scuole elementari o che al più hanno per qualche tempo frequentato le scuole serali, ma che dai 14 ai 18 o 20 anni sono stati in qualche piccola officina sotto la sorveglianza diretta del padrone. Sono in genere ignoranti e poco abili, ma attivi coscienziosi e spesso intelligenti. Venuti in un ambiente più elevato, capiscono la loro ignoranza e cercano di perfezionarsi. Se si ha la pazienza di istruirli, dopo qualche mese diventano degli ottimi operai. Tra questi soltanto mi è stato sinora possibile trovare operai che abbiano la stoffa per diventare buoni capi officina” e ancora :
“Il lavoro del capo officina è così arduo e le qualità morali e intellettuali che si richiedono per essere un capo officina sono talmente difficili a trovarsi, che io credo che un buon capo officina, quando acquisti un buon grado di cultura sufficiente, ha tutti i numeri per diventare un buon direttore tecnico di industria”
Camillo Olivetti ebbe convinzioni innovative, non solo per la sua epoca, ma lo sono anche attualmente per quanto riguarda la considerazione sociale del lavoro manuale e intellettuale:
“Il lavoro di fucina è un lavoro di natura tale che io non mi perito di chiamarlo intellettuale.
Secondo me non vi è quella divisione netta fra lavoro manuale e lavoro intellettuale che qualcuno ama credere. Tutti i lavori, se fatti bene, richiedono più o meno uno sforzo di intelligenza, ed il lavoro di fucinatore più di molti altri, non esclusi quelli che si chiamano intellettuali.
“Esso richiede in chi lo esercita alcune delle qualità superiori e tali qualità tende a sviluppare maggiormente. Infatti un buon fabbro deve, oltre che di buona salute, essere dotato di preveggenza e di immaginazione, perché deve prima vedere e studiare il mode per ridurre l’informe massa incandescente alla forma voluta: deve avere sviluppate le qualità attentive perché un momento di disattenzione può rovinare completamente il suo lavoro, e infine avere una rapida percezione delle cose, perché la massa incandescente non dà tempo alla mente di soffermarsi ed essere indecisa, ma chi la maneggia deve passare rapidamente dal pensiero all’azione” (Gli Olivetti di Bruno Caizzi pag.21 Utet)
Si evidenzia in questi suoi scritti il profondo rispetto per il lavoro umano, e la severità con cui giudicava chi disdegnava il lavoro di officina, e la considerazione per gli operai capaci che lui costantemente incoraggiava sulla strada dell’elevazione culturale e tecnica.
Fra questi, basti citare Domenico Burzio, tra i primi operai allievi di Olivetti e forse il meno preparato culturalmente in quanto aveva solo la seconda elementare, ma che divenne negli anni il vero braccio destro di Camillo e entrò nella storia dell’azienda Olivetti.
Olivetti era un convinto assertore delle scuole professionali e tecniche che dovevano però preparare il personale in stretta collaborazione con i fini dell’industria.
Per esperienza personale non era un grande estimatore dell’insegnamento universitario:
“I nostri politecnici ci danno degli ingegneri che ben poco conoscono di quanto si fa in pratica e, quello che è peggio, hanno vissuto per anni la vita artificiale dello studente fuori dal mondo che vive e che lavora, vita deprimente che fiacca alle volte l’intelligenza, quasi sempre l’energia. La mancanza di energia è appunto il difetto che più delle volte si riscontra nelle persone che hanno fatto un corso regolare di studi. E appunto la mancanza di energia nei direttori, congiunta qualche volta ad una notevole ignoranza degli uomini e delle cose, che io ascrivo per gran parte l’indisciplinatezza che si lamenta attualmente nelle masse operaie. E facile la disciplina quando quelli che stanno in alto hanno acquistato un grande ascendente su quelli che stanno in basso; ma questo ascendente si acquista con la superiorità intellettuale ed una tenacia di lavoro di tutti i giorni, di tutte le ore, che raramente si trova nel nostro personale direttivo.”
L’eccezionalità della figura di Camillo Olivetti si esprime proprio in quegli anni a cavallo tra l’800 e il ‘900 quando,nel frattempo si era sposato e diventato padre di tre dei suoi sei figli , nel pieno del vigore fisico ed intellettuale, svolge con successo le sue attività di imprenditore, ma non dimentica le sue passioni politiche.
A Milano nel 1898 il popolo è in fermento per l’aumento del prezzo del pane, e la protesta assumerà ben presto una piega drammatica con le note cannonate di Bava Beccaris , le centinaia di morti e migliaia di arresti.
Camillo si reca a Milano con la scusa di seguire i suoi interessi commerciali e per poco non fini per essere travolto dalla macchina repressiva del generale sabaudo.
Ecco come raccontò quell’esperienza:
“Nel maggio ‘98 andai a Milano con la ferma intenzione di prendere parte ad una rivoluzione. Stando a Ivrea avevo preveduto molto meglio che gli uomini che erano sul sito, che qualcosa doveva accadere. Io credevo che Turati, Rondoni e tanti altri che per così dire erano a capo del partito avrebbero saputo condurre le masse e instaurare un nuovo regime. A Milano non accadde nulla di quanto io prevedevo, almeno per parte dei capi che non capirono nulla e non seppero ne frenare ne comandare il movimento. Il risultato furono 500 ammazzati e migliaia di anni di galera distribuiti. Quella volta io la scampai bella. Visto che a Milano non vi era nulla da fare me ne andai a Torino ed ero tanto esaltato in quei giorni che se avessi potuto trovare un duecento uomini ben armati avrei cercato di suscitare una rivoluzione...Ma il buon Treves e il Maffi con cui ebbi un conciliabolo mi disillusero ed allora ebbi il buon senso di consigliare loro di fare un proclama per sconsigliare ogni ulteriore agitazione che avrebbe portato a un nuovo massacro, cosa che essi fecero, e credo sia stata questa la migliore azione che ho fatto in vita mia”
La presenza di Olivetti a Milano non passò inosservata, tanto che fu anche fermato dalla polizia nei pressi della stazione Centrale di Milano e sfuggì all’arresto solo perché riuscì a convincere i poliziotti che la sua presenza era dovuta esclusivamente alla cura dei propri affari.
Questo episodio del mancato arresto ebbe uno strascico nei mesi seguenti, in quanto una corrispondenza da Ivrea per “La Gazzetta del Popolo” raccoglieva le probabili e incaute confidenze fatte da Camillo a qualche amico e ironizzando sul fervente socialista eporediese andato a Milano ma da colà sfrattato di fatto segnalava alla polizia ciò che forse le era sfuggito. Olivetti non poté esimersi dal rispondere e pur attento di non fornire elementi per una incriminazione inviò una lettera il 13 maggio del 1898 alla “Sentinella del Canavese” ecco come rispose:
“.....Siccome pare dalla prelodata corrispondenza che alcuno si sia interessato ai fatti miei, dirò che è verissimo che sono stato a Milano, ma è falso che sii stato sfrattato e che sono lieto di essermi colà trovato non solo perché ho potuto accudire ai miei interessi commerciali, ma anche perché ho potuto farmi de visu un concetto adeguato di quella quarantottata che furono i moti dei giorni scorsi.
Ora la conoscenza esatta dei fatti è tanto più utile, in quanto la rubrica delle corrispondenze dei giornali contiene bugie tendenziose contro le persone, così gli articoli di fondo sono pieni di bugie tendenziose contro i partiti.”
La questione non passò inosservata alla polizia centrale e al Commissario Straordinario Bava Beccaris che l’11 giugno 1898 invia personalmente una lettera al Sottoprefetto di Ivrea per avere ulteriori notizie sull’animoso ingegnere di Ivrea:
“ E stato a quest’ufficio riferito che l’individuo a margine( Olivetti Ing.Camillo, socialista di Ivrea) costì residente, fermato nello scorso maggio in occasione dei disordini alla stazione Centrale in questa città, siasi vantato di essere stato subito rilasciato perché riuscì a trarre in errore la P.S. facendo credere di essere qui venuto per ragioni commerciali, mentre in realtà si sarebbe qui recato, nell’occasione dei passati ultimi tumulti, per prendere parte diretta alla rivoluzione. Prego la S.V. di voler assumere riservate e precise informazioni in argomento, favorendo disporre in conformità delle risultanze e porgendomi in proposito sollecito riscontro.” Non conosciamo la risposta del Sottoprefetto, probabilmente non riuscii o omise di fornire particolari compromettenti certo è che, anche grazie al clima politico più disteso, la vicenda non ebbe seguito.
Nelle nuove elezioni amministrative del 1899 il Partito Socialista presentò Camillo Olivetti candidato al consiglio comunale di Torino e fu un successo per il P.s. e per Camillo.
Nel consiglio entrarono 17 socialisti e su 20.483 voti complessivamente emessi Olivetti ottenne 7123 voti personali e risultò eletto.
Fra i suoi compagni di lista figuravano i più bei nomi del socialismo piemontese come Oddino Morgari che ebbe 7533 preferenze e Claudio Treves che ne ebbe 7318.(“Gli Olivetti” di B.Caizzi Utet pag.37)
Nonostante il successo politico personale, Camillo Olivetti era occupato a seguire la sua azienda di strumenti elettrici, e stava organizzandone il trasferimento a Milano per essere più vicino al suo mercato di riferimento. Cosa che avvenne nel 1903.
Olivetti resto poco nel consiglio comunale di Torino, si dimise l’anno dopo. L’unico suo intervento riferito dai giornali, nel gennaio 1900, tratta la richiesta per la concessione di un contributo comunale da assegnare alla Camera del Lavoro, che doveva venir ricostruita dopo le dure repressioni governative: il buon funzionamento della Camera di Lavoro- disse in quell’ occasione-- dovrebbe stare a cuore non solo agli operai, ma anche agli industriali.
La proposta non fu però approvata.
La fabbrica di strumenti di misurazione elettrica impiantata a Milano con il patrocinio della Edison trovo in quella città il terreno favorevole e superò il centinaio di persone impiegate.
L’esperienza milanese era ricca di prospettive economiche, ma era svolta in un ambiente mercantile come quello milanese a lui poco confacente. Conservò per tutta la vita un’avversione totale verso il mondo delle banche, della borsa, i manipolatori di titoli e gli speculatori di ogni sorta. Olivetti era un uomo che voleva fare da se, per nulla propenso a subire dei controlli, imposizioni, o a dividere responsabilità.
Aveva anche un’idea che voleva realizzare, un’idea difficile e inedita come la prima: quella di costruire macchine per scrivere.
Olivetti conservò la presidenza della fabbrica di strumentazione elettrica contando sul lavoro svolto dall’amministratore delegato e di lui amico fidatissimo.
Quando il gruppetto di lavoratori canavesani che l’avevano seguito a Milano appresero che l’Ingegnere ritornava in Canavese a intraprendere una nuova attività in molti lo seguirono, Camillo così la famiglia e nel 1907 ripresero la strada del Canavese.
Così come nel 1894, quando inizio la produzione di strumentazione elettrica non esisteva una fabbrica simile, anche nel 1908 quando Camillo Olivetti decise di costruire macchine per scrivere non esistevano fabbriche del genere in Italia.
Grande fu lo stupore quando gli eporediesi appresero che l’ingegnere era ritornato e stava riadattando la fabbrica in mattoni di via Castellamonte, per intraprendere una nuova iniziativa.
Più grande ancora fu lo stupore quando passando accanto alla fabbrica videro gli operai che montavano sui tetti dell’edificio una grande insegna: Ing. C.Olivetti e C. Prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere; probabilmente i più scrollarono la testa e tirarono avanti.
Olivetti, di mentalità aperta e lungimirante, come credette nello sviluppo dell’energia elettrica e nel conseguente sviluppo dei settori collegati era consapevole che la macchina per scrivere avrebbe trovato posto negli uffici. D’altra parte segnali in tal senso stavano già avvenendo in America e Inghilterra.
Da noi purtroppo penna e calamaio dominavano incontrastati e il primo esemplare di macchina a tasti per scrivere, detta cembalo scrivano ideata nel 1858 dal novarese Giuseppe Ravizza lasciò tutti più perplessi che convinti.
Qualcuno ricordò a Olivetti le delusioni e i soldi buttati dal Ravizza, ma lui da quella esperienza, più che insegnamenti sulla prudenza traeva sollecitazioni a fare e a modificare ciò che non aveva funzionato.
La prima macchina da scrivere costruita industrialmente nel 1873 dalla casa Remington negli Stati Uniti aveva il congegno praticamente identico a quello inventato dal Ravizza, ma venne da altri brevettata negli USA.
Olivetti basandosi sull’esperienza del Ravizza iniziò la produzione delle macchine per scrivere nel 1908, ma era cosciente che per creare una macchina ex novo e competitiva doveva confrontarsi con la concorrenza e risolvere i problemi legati ai brevetti.
Ai primi di novembre 1908, decise di intraprendere un viaggio negli Stati Uniti con il duplice scopo di curare gli interessi della C.G.S. la fabbrica di strumenti elettrici e alle macchine per scrivere. Negli U.S.A. riallaccia rapporti con vecchie conoscenze, visita università e fabbriche. Nel gennaio 1909 riesce a visitare la Underwood e la Remington dove già riescono a produrre 70.000 macchine all’anno. In una lettera alla moglie commenta: “Sono fabbriche enormi ed ho imparato molte cose, onde il mio viaggio in America non è stato inutile.” Olivetti è entusiasta e non vede l’ora di ritornare nella sua fabbrichetta dove i suoi operai producevano le prime macchine da scrivere italiane, ma per quanto ottimista fosse sul futuro della sua azienda, mai avrebbe pensato che 50 anni dopo l’insegna della Olivetti avrebbe sostituito quella della Underwood anche in quello stabilimento americano. Ritornato a Ivrea si getto a capofitto nella progettazione di una nuova macchina, frutto dell’esperienza acquisita nel recente viaggio in America, molte parti erano tutelate da brevetti industriali che Olivetti aggirò riprogettandoli in maniera originale.
Dopo qualche settimana consegnò un fascio di disegni ai capi operai dicendo:” Questa è la M1. Ora bisogna costruirla” Olivetti era conscio delle difficoltà insite nella costruzione degli innumerevoli pezzi che formavano una macchina e della necessità di forgiare, plasmare e lavorarli quasi esclusivamente a mano pezzo per pezzo. Questo richiedeva agli operai una professionalità sconosciuta alle moltitudini che lavoravano nel settore tessile, e facevano del lavoro presso Olivetti un motivo di vanto.
L’ingegnere Camillo trascorreva lunghe ore nel suo ufficio, assorto fra disegni e carte, e da dove frequentemente compariva nel reparto con rapide incursioni per seguire i lavori.
Ecco come lo descrive Bruno Caizzi nel libro “Gli Olivetti”:
“ Era uomo che incuteva naturale simpatia e nello stesso tempo timore reverenziale: non molto alto ma di solida corporatura, folta la barba a raggiera diventata presto bianchissima, chiari e pungenti gli occhi che parevano trafiggere quando fissavano in volto, e lampeggiavano quando egli lamentava qualche contrarietà o muoveva rimproveri ai dipendenti, il che per la verità accadeva piuttosto di frequente.
Sul lavoro Olivetti aveva fama di essere incontentabile e in realtà non sopportava l’opera non eseguita alla perfezione e non riusciva a frenare gli impulsi irosi verso chi sbagliava, ma la collera durava un istante solo e lasciava il posto a un gesto disteso ed affettuoso. ”Mi arrabbio sempre due volte, confessava ad un suo intimo:”prima del fatto e più tardi al pensiero di essermi arrabbiato per cosa di poco conto”
Girava fra i banchi munito di cacciavite e di altri arnesi, indossando d’estate una giacca bianca e d’inverno uno scialle o una coperta, seguiva attento il lavoro dell’operaio, gli suggeriva qualche correzione e finiva spesso con lo strappargli di mano la lima o il trapano e prendere il suo posto al bancone.
Agiva d’impeto ma era anche pronto a ricredersi e sapeva volgere in generosità una severità eccessiva. In un momento di contrarietà poteva giungere di licenziare in tronco un operaio colpevole di una lieve mancanza, ma guai poi a quello se all’indomani non si fosse ripresentato regolarmente all’officina.
...Quanti erano accanto in lunga convivenza operosa avevano imparato ad apprezzare l’umanità schietta e semplice che si celava dietro a quelle parvenze: tutti nello stabilimento e fuori, conoscevano la generosità proverbiale di Olivetti, la larghezza con cui rispondeva a chi nel bisogno si rivolgeva a lui. Sapeva dare, poiché alla grande bontà d’animo univa un sentimento di democrazia che nei rapporti con i dipendenti prendeva gli accenti di una schietta, fraterna solidarietà e partecipazione.”
Con il passare degli anni, la fabbrica migliorava le sue capacità produttive e cominciò a dotarsi di un’organizzazione commerciale. Nel 1911 la Olivetti vinse un bando di concorso per la fornitura di macchine per scrivere al Ministero della Marina, a cui seguì nel 1913 una fornitura di 50 macchine per le Poste. Seppur lentamente la macchina da scrivere entrava negli uffici e le ordinazioni cominciarono a giungere da tutta Italia. Quando le cose sembravano procedere per il verso giusto nel 1914 scoppiò la 1 guerra mondiale e il mercato delle macchine da scrivere crollò improvvisamente.
La fabbrica di Ivrea dopo un periodo di crisi, accantonò la sua tradizionale produzione e si convertì alla produzione bellica nel quadro della generale mobilitazione industriale iniziando così la produzione di spolette, parti di fucile e mitragliatrici e verso la fine del conflitto anche di giroscopi impiegati per l’orientamento dei siluri.
L’immane tragedia della guerra avrà sicuramente creato dei notevoli conflitti anche alla coscienza di Camillo Olivetti. Le fonti letterarie e archivistiche non ci dicono molto sui tormenti che pur deve aver avuto, e sull’attività svolta nel periodo bellico, in quanto la documentazione degli archivi di Ivrea per il periodo in questione sono andati quasi completamente distrutti. Comunque al di la dei suoi convincimenti avuti prima dello scoppio della guerra, quando l’irreparabile era avvenuto prevalse in lui il sentimento del buon italiano che auspicava il compimento di quel processo risorgimentale iniziato dai loro padri.
La guerra pose fine alle illusioni di una unità del proletariato e del movimento socialista internazionale, che finì per dividersi e questa divisione attraversando le coscienze dei militanti e accentuò la distanza fra i riformisti che credevano in un cambiamento graduale della società, e i massimalisti che non lo credevano possibile e auspicavano una rivoluzione che abbattesse il vecchio regime e istaurasse il socialismo con la forza.
Camillo Olivetti anche per il particolare lavoro che svolgeva e dall’esperienza maturata nei vari settori era conscio della complessità dei problemi ed era convinto che non bastasse ribaltare il governo per risolvere i problemi e quando si impose una scelta questa fu la scelta del riformismo rappresentato dall’Unione Socialista Italiana.
Finita la guerra, il 14 agosto 1919 fondò un giornale “L’azione Riformista” di cui fu animatore e finanziatore. Il giornale si stampava in Ivrea e non ebbe vita lunga.
Nel settimanale Olivetti riversava il suo temperamento e la sua visione della società che era sempre originale e non classificabile totalmente in nessuna delle fazioni socialiste.
Dalle pagine del giornale traspare il suo rigore morale verso le istituzioni pubbliche che giudica corrotte e incapaci di rappresentare la parte più laboriosa della nazione.
La scelta degli argomenti e la spregiudicatezza dello stile facevano del giornale uno strumento di battaglia individuale, immune però da interessi personali.
Ecco come sul primo numero del giornale Olivetti esponeva i pensieri e gli intendimenti del suo giornale:
“ Noi crediamo che si debba tendere rapidamente verso un nuovo assetto sociale del quale tutto il frutto del lavoro vada a chi utilmente lavora, ed in questo grande principio, siamo d’accordo con i socialisti delle diverse tendenze. In un’altra cosa pure noi siamo , sino ad un certo punto d’accordo con essi ed è nel concetto della lotta di classe intesa nel senso che i rivolgimenti politici ed economici non possono ottenersi se non mercé la lotta delle classi che da tali rivolgimenti ritrarrebbero il massimo utile contro quelle che, per paura o per interesse, a tali rivolgimenti si oppongono. Sennonché noi non siamo semplicisti e sappiamo che i fenomeni sociali sono per loro natura molto complessi e non possono nella loro essenza esprimersi in poche formule brevi come vorrebbero da una parte i teorici e dall’altra i demagoghi; quelli per inerzia mentale è molto più facile giurare su formule che indagare su fenomeni complessi, questi per comodità di propaganda perché è molto più comodo esporre alla gente concetti semplici e suggestivi, anche se non integralmente veri, piuttosto che compiere il lavoro faticoso e difficile di istruire e di persuadere....
Pur serbando fede alle direttive sopra esposte crediamo che si debba e si possa tendere verso nuovi ordinamenti politici e sociali che in modo diverso da quello che forma il vangelo delle varie scuole. Perciò pur essendo socialisti, non ci sentiamo di legare il nostro giornale all’uno o all’altro dei diversi partiti socialisti, ma ci proponiamo di essere con gli uni e con gli altri e quando lo riputeremo necessario contro gli uni e gli altri, sempre ossequianti a concetti e ad idee, non a preconcetti o ad interessi.”
Negli articoli di Olivetti traspare sempre un fondo moralista, un’attenzione particolare all’elevazione degli uomini, condizione necessaria per il buon funzionamento di qualsiasi sistema politico o economico, così in un suo breve scritto del 14 agosto 1919 “La mentalità del produttore” traccia il profilo di come deve essere un imprenditore, in contrapposizione a quella diffusa di uomini d’affari spregiudicati che perseguono solo il proprio interesse immediato:
“La mentalità di un industriale che voglia meritare tale nome ed essere onorato ed onorevole, dovrebbe essere quello di un produttore e di un’organizzatore, non quella di uno speculatore.
Lo scopo preciso che un’industriale deve prefiggersi è quello che la sua officina produca molto e bene, così da crearsi una buona reputazione. L’idea del guadagno deve passare in seconda linea.
Succede per l’industriale serio quello che succede per l’artista vero che deve mirare alla perfezione della sua opera più che al lucro che da essa ne ricaverà. Per l’industriale come per l’artista il guadagnare è certamente una necessità, ma si deve in ogni caso riflettere che l’utile sarà tanto maggiore quanto più perfetto riuscirà il lavoro e per ottenere ciò non deve essere altra mira che la perfezione dei prodotti.
Il produrre bene è più difficile e soprattutto richiede più tempo e più pratica che il produrre male, ma esso è l’unico modo realmente sano ed onesto a lungo andare anche il più profittevole.
Questo metodo è poco apprezzato da molti che si chiamano industriali perché hanno investito dei capitali nelle industrie e sono esponenti di banchieri che nelle industrie altro non vedono che un affare; ma questi più che industriali sono affaristi e costituiscono una vera calamità per il buon nome dell’Italia.
Infatti proprio ad essi si deve imputare il fatto che i nostri industriali non hanno quella estimazione che si meriterebbero se sapessero svincolarsi dai metodi affaristici i quali, non solo, costituiscono un disastro morale, ma a lungo andare, conducono a disastri finanziari le stesse industrie che li seguono.”
Emerge qui la grande diffidenza che Olivetti serbava al sistema bancario e a quella nuova classe di speculatori e affaristi che si era formata nel periodo della prima guerra mondiale e continuava a prosperare nel disordine sociale e inflattivo che era seguito.
Anche in merito ai lavoratori e al proletariato in genere Olivetti auspicava una politica basata” su una propaganda tenace, assidua e illuminata, intesa ad elevare il valore morale del proletariato, ad eccitare in questo lo spirito di abnegazione, a convincerlo che è necessario in certi casi ed è nobile esempio, tendere all’elevamento e al perfezionamento anche mediante la rinuncia a benefici immediati, a sacrificare insomma, dove occorra, l’oggi al domani, e avere sempre di mira questo: che ogni generazione vale e risponde al suo compito in quanto consegna alla generazione successiva non diminuito, ma sempre più luminoso, il retaggio del progredente sviluppo umano”
Camillo Olivetti partecipò nel novembre 1919 al congresso dell’Unione Socialista Italiana a Roma, ma ne tornò deluso.
La sua mentalità abituata a trattare fatti concreti di politica economia e amministrazione mal si adattava agli esercizi oratori dei congressi che finivano per lasciare le cose nel punto stesso in cui le avevano trovate.
Intanto la sua industria andava ingrandendosi: uscita dal periodo bellico con circa 200 operai, nel 1921 ne aveva 250 e raggiungeva i 400 nel 1924.
L’inizio della produzione della M20 un nuovo tipo di macchina e l’estendersi della rete commerciale portò all’affermazione di Olivetti come imprenditore di successo.
La fabbrica continuava a crescere, non era più solo il singolo edificio, ma cominciava ad articolarsi in reparti estendendosi sempre più.
Anche i metodi produttivi cambiavano, al manipolo di operai fidati con i quali Olivetti aveva iniziato la sua avventura se ne erano affiancati altri e ora un gruppetto di tecnici e ingegneri dirigevano la produzione. Ormai era difficile per Olivetti intrattenere quei rapporti stretti con i propri dipendenti a cui tanto teneva, ma spesso radunava le maestranze, saliva su una cassa e intratteneva i lavoratori su vari argomenti.
Nel 1920, dopo un periodo di forti tensioni sociali si sviluppo il movimento che porto i lavoratori esasperati all’occupazione delle fabbriche esautorandone i proprietari e tentando di continuare la produzione.
Anche nella fabbrica di Olivetti vi fu qualche protesta ma lui aveva fiducia e comprensione per i sui operai e a chi gli suggeriva di usare metodi duri e sbrigativi rispondeva sdegnato che come era riuscito a creare la fabbrica, così sarebbe riuscito a riportare l’ordine senza le bastonate.
Nell’agosto del 1920 funzionari della Camera del Lavoro si presentarono all’officina con il compito di invitare gli operai all’occupazione della fabbrica. Olivetti non si perse d’animo, invitò i rappresentanti negli uffici e registri alla mano dimostrò che i suoi operai godevano già da tempo di eccezionali provvidenze salariali e assicurative. Dopo di che riunì nel cortile tutte le maestranze dicendo loro che giudicava un sopruso quello che si voleva fare ,che lui non era d’accordo, ma disse anche che lasciava liberi tutti di decidere e se avessero deciso per l’occupazione lui noi si sarebbe opposto.
Una rappresentanza di operai, a nome di tutti , dissero che non si sentivano di gestire la fabbrica senza lui e i tecnici e invitò Olivetti a restare al suo posto.
Passato il periodo tempestoso del ‘20 e ‘21 arrivarono i fascisti e la dittatura.
In quegli anni convulsi Olivetti collabora a “Tempi Nuovi” un giornale torinese di cui è tra i promotori e finanziatori e al quale collaborano diversi giornalisti di area liberale e socialista riformista.
Erano quelli anni densi di disordini, violenze, e di disorientamento che favorirono la stanchezza degli animi e la necessita di ripristinare la convivenza civile.
Nei primi tempi il giornale parve quasi giustificare l’operato di Mussolini ma ebbe motivi di ricredersi dopo la marcia su Roma e la presa del potere.
Quando furono chiari i pericoli che il fascismo rappresentava per la democrazia il giornale non esito a denunciarli, mettendo in primo piano i temi della difesa delle istituzioni pubbliche. In un articolo di fondo riconducibile a Olivetti la linea del giornale assumeva un preciso indirizzo di opposizione:
“Checché possono farneticare le menti malate dell’area estrema del fascismo quale sorse dopo il ’20 vogliono persino cancellare il ricordo, la libertà non si sopprime.
La civiltà è intimamente connessa alla libertà e alla democrazia e qualsiasi tentativo si faccia per sopprimerla, non riuscirà, ma porterà inevitabilmente ad una catastrofe. Il fascismo sorse appunto per reazione alla violenza, in nome della libertà, e noi, in nome della libertà, ci poniamo di lottare su questo foglio, fino a che potremo tenere in mano la penna, sicuri di difendere con la libertà e la democrazia quel supremo interesse nazionale che il fascismo continuamente invoca...
Noi, con il fascismo o senza il fascismo, saremo per la libertà e per la democrazia, termini indissolubili, basi incrollabili di governo nazionale e non di governo di parte! Per la libertà e per la democrazia: Evviva! “ ( 8 gennaio ‘24)
Quando scriveva queste parole nell’inizio del ‘24, la disfatta socialista e del movimento operaio erano ormai a compimento, l’ultima linea di difesa rimaneva la difesa delle istituzione per la salvaguardia di quel minimo di libertà, ma come sappiamo fu cosa vana.
Dopo l’omicidio di Matteotti il fascismo si preparava all’instaurazione della dittatura. “Tempi Nuovi” continuava a denunciare le violenze e le intimidazioni delle camice nere, ma era ormai assediato e presto avrebbe dovuto arrendersi.
Tra gli ultimi articoli del giornale, Olivetti il 15 aprile del 1924 si rivolgeva agli industriali esortandoli ad abbandonare l’appoggio ai fascisti e difendere la libertà:
“La classe industriale non può non sentire il grido di dolore che da ogni parte di Italia si leva contro lo stato di abiezione in cui si va scendendo ogni giorno più e soprattutto non può non sentire l’agitazione, pacifica si, ma profonda che si diffonde nella classe operaia, la quale vede elevarsi il costo della vita mentre si rifiutano gli aumenti di salari, tuttavia insufficienti pur essi a compensare il rincaro dell’esistenza. Gli interessi dell’industria, a voler parlare solo di interessi e non di sentimento, sono intimamente collegati allo stato d’animo delle nostre masse e ogni arbitrio, ogni violenza, traccia un solco profondo tra industriali e operai, semina rancori che un giorno avranno il loro doloroso epilogo.
Nella difesa delle libertà e delle istituzioni in tutto ciò che esse hanno di più veramente sacro, il rispetto dei diritti dell’uomo, la uguaglianza di diritto se non di fatto, la giustizia, gli industriali devono trovarsi a lato di tutti gli altri cittadini. L’appartarsi, l’accostarsi volutamente ai sopraffattori, vuol dire rendersi colpevoli di tutte le colpe di cui questi sopraffattori sono responsabili, ma vuol dire disonorare la classe industriale italiana dinanzi alle altre classi industriali e questo non deve essere.”
Erano le ultime difese di una battaglia che volgeva al peggio. Le squadracce fasciste gli dettero un primo ammonimento saccheggiando la redazione del giornale nella notte dal 20 al 21 giugno di quel 1924.
Nei mesi che seguirono furono un susseguirsi di defezioni dalla redazione, e ”Tempi Nuovi” chiuse definitivamente 8 gennaio ‘25.
Tra gli ultimi articoli, allorché il governo fascista abolì la celebrazione del 1 maggio, il suo giornale uscì con un scritto commosso, che certamente a Camillo Olivetti ricordò le ricorrenze della sua giovinezza, passate in fraternità con i suoi operai nelle trattorie della zona, tutti uniti nella speranza di un mondo migliore:
“Primo Maggio” - Il significato di festa esaltante il lavoro che tutti i lavoratori affratella oltre i confini della patria, di festa, che, nel suo primitivo e vero concetto, si ispira ad alto senso di umanità, apparirà più grande precisamente perché viene conservato con più devozione e più sincerità in fondo al cuore.
Se la nostra parola avesse valore presso gli operai, noi diremmo loro: ”Accettate questo sacrificio come in questi ultimi tempi avete dovuto accettarne altri. Non disertate il lavoro. Non avete il diritto di fare soffrire le vostre famiglie. Tutto ciò che di buono e di bello ha avuto il Primo Maggio appare più radiosamente in questo giorno in cui il vostro diritto di scegliere anche voi un giorno di festa vi è conteso”
E l’armonia sociale cui aspiriamo con tutta l’anima nostra e per cui lottiamo, la vera pace in un regime di maggior giustizia sociale che noi auspichiamo, il ripristino di un sano regime di democrazia come lo sognò Giuseppe Mazzini avranno il loro domani. Ci vuole fede. La libertà non muore.”
Finchè fu possibile, cioè prima delle leggi liberticide, Olivetti si adoperò nel tentativo di contrastare l’instaurazione di un regime fascista e in difesa delle libertà democratiche.
Ai primi di novembre 1924, i rappresentanti dei partiti di opposizione al fascismo del Canavese si riunirono a Ivrea e votarono il seguente ordine del giorno:
“Riaffermata la necessità di mantenersi uniti nella lotta, si delibera di intensificare l’opera di propaganda nei paesi del circondario, istituendo nuclei fattivi e operosi di oppositori, allo scopo di completare l’isolamento morale del fascismo nel paese, sino alla conquista di un ordine sociale di libertà e giustizia, escludendo che all’attuale situazione possano essere date soluzioni intermedie o di compromesso, augurandosi che abbia termine al più presto l’equivoca attitudine delle forze liberali e fiancheggiatrici.”
Emerge da questa presa di posizione la decisa volontà di resistere e la condanna di quelle forze moderate e liberali che con il loro atteggiamento ambiguo finirono per favorire la dittatura fascista. Ma era ormai troppo tardi. L’ufficio di P.S. di Ivrea, che non aveva mai smesso di tenerlo d’occhio, il 10 novembre 1924 riferiva al prefetto di Torino l’avvenuta riunione e il funzionario che aveva avuto precise informazioni aggiungeva al suo rapporto: ”Più che una vera riunione è stata una montatura di Olivetti, che ha fatto l’ordine del giorno e l’ha letto ai vari oppositori del Circondario” e comunicava l’elenco dei partecipanti alla riunione che risultavano appartenenti al partito socialista unitario, a quello massimalista e al partito popolare.
Con l’abolizione della libertà di stampa e delle libertà costituzionali, la lotta politica si trasferì nella clandestinità. Olivetti dovette rinunciare ai sui articoli, e divenne più prudente negli atteggiamenti pubblici, ma non mutò il modo di pensare.
Nel 1926 ebbe ancora un ruolo, seppur indiretto nell’organizzare l’evasione e il trasferimento all’estero di Filippo Turati il padre del socialismo democratico italiano.
Come Ferruccio Parri raccontò poi sull’ “ Umanità” del 9 ottobre 1948, Turati versava in precarie condizioni di salute e il suo appartamento era vigilato notte e giorno da dieci guardie. Parri con Carlo Rosselli e altri ardimentosi compagni riuscirono attraversando le soffitte scendere le scale in una via laterale e sottrarre il grande vecchio del socialismo alla sorveglianza della polizia.
Turati fu ospitato da amici mentre si cercava una via per raggiungere la Svizzera ma le sue condizioni di salute non permisero di passare per i valichi di montagna mentre quelli bassi erano troppo controllati. Rosselli saputo che la polizia li ricercava attivamente, portò Turati a Ivrea in casa del dott.Pero dove resto qualche giorno prima di traferirlo a Torino.
Intanto con l’aiuto di Sandro Pertini, il futuro presidente italiano, di Italo Oxilia, capitano di lungo corso e tre marinai veniva preparato il piano per l’evasione via mare.
E così una rigida notte di inverno un auto, sfuggendo ai posti di blocco, portò Turati e i suoi accompagnatori a Savona. Alla guida di quell’auto, “impassibile e silenzioso”- come scrive Parri - vi era il figlio maggiore di Camillo, Adriano Olivetti.
La sera del 12 settembre 1926 salparono per la Corsica dove arrivarono, dopo una tempesta, a Calvi accolti dal locale Circolo Repubblicano che in nome della libertà e fratellanza organizzò festose accoglienze. Il giorno dopo Turati, Pertini, Oxilia proseguirono per Nizza. Gli altri rientrarono e vennero arrestati insieme all’industriale che aveva ceduto l’imbarcazione.
Al processo svoltosi il 9 settembre 1927, Parri rivendicò a se tutte le responsabilità del gesto compiuto per protesta contro il fascismo e scagionando gli imputati minori.
Anche Rosselli si difese fieramente: “Non è ammissibile che, per ogni spirito libero, la terra natale sia convertita in un carcere, nel quale è delitto al tempo stesso rimanere con dignità o uscire con libertà” e collegò pure la loro lotta antifascista con il Risorgimento abbandonandosi ad un ricordo di famiglia: “Un Rosselli ospitò nascostamente in Pisa Mazzini morente, esule in Patria. Era logico che un altro Rosselli mezzo secolo di distanza, provvedesse a salvare dalla furia fascista uno degli spiriti più nobili e disinteressati del suo paese.” Il tribunale condannò tutti a pene varianti tra un anno e due masi a dieci mesi.
Nessuno degli imputati fece il nome di Olivetti. Camillo e Adriano parevano ormai dedicarsi esclusivamente alla loro fabbrica.
Olivetti e le sue attività imprenditoriali erano ormai noti, non solo a livello nazionale, e il regime cerco di attirarlo a se con le solite onorificenze.
Olivetti, che aveva sempre aborrito titoli e decorazioni, per la semplicità della sua persona e per le sue convinzioni repubblicane, certamente non desiderava quelli elargiti dalla monarchia e dal fascismo. Saputo che il suo nome stava per essere incluso in una infornata di cavalieri del lavoro, spedì di corsa il genero a Roma perché scongiurasse quell’eventualità.
In un’informativa del 8 gennaio 1927 il Commissario di P.S. di Ivrea informava la questura di Aosta che l’Olivetti continuava a mantenersi irriducibile oppositore del regime anche se non era da ritenersi ”elemento pericoloso all’ordine nazionale dello stato”.
L’anno dopo la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, schedava Olivetti come ”socialista individualista ed ex capo del Comitato aventiniano di Ivrea”. Essere schedati come “oppositori” equivaleva essere privati del passaporto e quando nel dicembre del 1928 si presentò alla frontiera, diretto a Barcellona per l’inaugurazione della sua prima fabbrica all’estero, il passaporto gli fu ritirato in quanto il suo nome era nei registri di segnalazione. Olivetti infuriato si recò direttamente a Roma ove riebbe il suo passaporto dal Ministero degli Interni che ritenne inopportuno suscitare uno scandalo all’estero. L’età, e soprattutto le condizioni di salute che cominciavano a pesare indussero Camillo Olivetti a cedere progressivamente le responsabilità in azienda al figlio Adriano.
Il giovane, laureato di fresco al politecnico di Torino seguì le orme del padre e si recò il America insieme al direttore tecnico Burzio, a studiare i nuovi metodi di lavorazione e principi di organizzazione aziendale che in Italia erano ancora sconosciuti.
Al loro rientro in Italia, il primo suggerimento fu quello di introdurre nelle officine un nuovo processo di lavorazione. Nel 1926, i dipendenti della Olivetti avevano superato le 500 unità, ma il numero di macchine prodotte non superava le 9000 unità.
Per competere con la concorrenza estera era necessario aumentare il numero di unità prodotte per addetto, adottando un ritmo di lavoro più serrato e razionale.
L’ingegnere Camillo si mostrò assai perplesso, preoccupandosi che le innovazioni da introdurre non portassero ad una riduzione delle maestranze.
Il figlio Adriano raccontò in seguito:
“Nell’affidarmi allora la riorganizzazione delle officine mio Padre mi aveva conferito grandi poteri, ma mi aveva pure avvisato ed ammonito con precise indicazioni e in questi termini parentori:” tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia.”
La ristrutturazione dette i suoi risultati nel 1929, nonostante la grande crisi mondiale, lo stabilimento conservò, anzi aumentò lievemente il numero di addetti e la produzione sfiorò le 12000 unità con un aumento del quasi 30 per cento.
Nel 1929 venne creato l’ufficio Progetti e Studi e grazie alla collaborazione di Camillo Olivetti con l’ing.Gino Martinoli venne iniziata la costruzione della nuova macchina per scrivere M40.
La fabbrica Olivetti era una realtà ormai affermata in Italia e apprezzata all’estero; nel 1933 solo a Ivrea si producevano 15.000 macchine per ufficio e 9.000 portatili.
Camillo Olivetti poteva essere orgoglioso della sua attività di industriale e dei successi ottenuti.
La sua concezione di industria, fu un fatto veramente eccezionale, probabilmente unico nella meccanica italiana, Camillo Olivetti creò una fabbrica che si sviluppò da se stessa;
essa partì da un brevetto proprio, anziché seguire la comoda strada di costruire su licenza di brevetti stranieri; creò una fonderia per i singoli pezzi, che venivano lavorati sino al montaggio, tutto all’interno dell’azienda. Creo un’officina che attrezzava le macchine utensili impiegate nelle lavorazioni: la O.M.O , una fabbrica nella fabbrica, dove l’Ing.Camillo trascorse maggiormente il suo tempo, dopo aver affidato le redini dell’impresa al figlio Adriano e ritrovando in essa la felicità e l’estro degli anni giovanili. Il suo ingegno trasformò, adattò, e produsse nuove macchine utensili che rifornirono anche altre industrie. Ne ricordiamo alcune: Anno 1923 prime macchine speciali per il taglio delle piastre portamartelletti. Anno 1925: prime macchine speciali per il taglio dei pignoni e delle cremagliere e la fresatrice- pialla F.P.O. che dette ulteriore fama a Camillo Olivetti.
Alla fine degli anni trenta, Olivettti poteva compiacersi della sua attività industriale. La sua azienda non aveva rivali in Italia ed era attiva in numerosi paesi esteri.
Nel 1938 Camillo Olivetti compì settanta anni e la malferma salute lo rendeva stanco e più vecchio di quanto non fosse.
Se la sua attività professionale gli aveva dato così tante soddisfazioni, non così era stato per quella intellettuale. I principi e gli ideali di libertà, uguaglianza, solidarietà ai quali in tutta la vita aveva creduto, erano continuamente calpestati.
Erano tempi tristi per l’Italia e per l’Europa. La democrazia parlamentale attraversava quasi ovunque una grave crisi, molti paesi erano caduti sotto feroci dittature e lo spettro della guerra cominciava ad aleggiare sulle nazioni.
In Italia il regime fascista era saldamente al potere e si ispirava ad una filosofia politica che era la negazione dei principi ai quali aveva creduto e si era ispirato nella sua vita. Il confronto tra quel mondo dominato dagli istinti più violenti e dalla sopraffazione degli uni sugli altri e l’età della sua giovinezza, di quando generosamente si gettava nella mischia, animato solo dall’ansia di aiutare le classi più deboli, per costruire una società nuova, certamente amareggiava le riflessioni di un uomo giunto al compimento della sua vita.
Gli ultimi suoi anni furono anche quelli caratterizzati dalla promulgazione delle leggi razziali.
Camillo Olivetti che sempre si era dichiarato agnostico, e aderente alle idealità socialiste fu però sempre legato da parentele e da profonde amicizie al mondo ebraico e questi provvedimenti che colpivano la comunità ebraica lo indignarono profondamente.
Quando la guerra divampò furiosa con il suo carico di morti e distruzioni, respinse le insistenze di quanti lo invitavano a recarsi in Svizzera o nascondersi in luogo sicuro.
Nel 1943, con gli alleati sbarcati in Sicilia e la costituzione del governo Badoglio, molti si illusero che la guerra fosse finita, mentre ciò preludeva solamente all’occupazione tedesca e alla necessità di una lunga e sanguinosa lotta fratricida prima di giungere alla liberazione.
Alla rappresentanza di operai che si recarono a trovarlo disse parole di esortazione: “Non siamo ancora liberi, preparatevi a difendere voi stessi, le vostre case, le vostre famiglie, le vostre macchine, siate forti”
In autunno giunsero anche ad Ivrea i militari tedeschi. Cominciarono a studiare l’ambiente
e soprattutto si interessarono alla grande fabbrica che conteneva macchinari preziosi e dove lavoravano migliaia di operai.
Ad Olivetti giunse l’informazione che i tedeschi si informavano su di lui, e il rimanere ad Ivrea era una follia.
Si lasciò convincere che bisognava fuggire e venne condotto a Pollone vicino a Biella, dove il vegliardo venne accolto in casa di contadini.
Quando lasciò Ivrea era già ammalato e quella fuga non fece che peggiorare la sua situazione. Dopo un inutile ricovero all’ospedale di Biella, Camillo Olivetti si spense il 4 dicembre del 1943 e per pochi mesi non ebbe la gioia di veder rifiorire quegli ideali per i quali aveva creduto e che la speranza in un mondo migliore tornava a vivere.
Bigiaretti, ricordò così il suo funerale:” Il giorno in cui fu trasportato al cimitero pioveva, ma da Ivrea e dai borghi vicini, dai vari luoghi del Canavese si erano arrampicati su per la Serra, fino a Biella i sui operai, i suoi fedeli. Erano arrivati con ogni mezzo, i più in bicicletta, con grande fatica e grave rischio. I tedeschi già davano la caccia ai partigiani, razziavano uomini, minacciavano intere popolazioni. Il piccolo cimitero israelitico di Biella poteva diventare un luogo di massacro; il recarvisi una sfida temeraria; ma esso si popolò , quel giorno, di uomini silenziosi, a capo scoperto, sui cui volti la pioggia cancellava inutilmente le lacrime “
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