Liberator KG 875, volo senza ritorno.
Il 12
ottobre 1944, un quadrimotore con 8 uomini di equipaggio, si schianta in Val
Soana.
Nell’autunno
del 1944 le Armate alleate si erano attestate sull’Appennino, in prossimità
della pianura Padana; in Piemonte il movimento partigiano provato, ma non vinto
dall’offensiva tedesca dell’estate, era riuscito a riorganizzarsi e si stava
preparando a trascorrere un altro inverno sulle montagne.
Lo
stabilizzarsi del fronte e la prospettiva di una tregua di fatto durante
l’inverno, indusse il generale Kesselring ad ordinare una massiccia operazione
contro le formazioni partigiane, con pesanti rastrellamenti e rappresaglie
contro la popolazione civile che aiutava i patrioti.
I comandi
Alleati consapevoli dell’importante contributo che la lotta partigiana stava
dando, impegnando intere divisioni di tedeschi, che altrimenti sarebbero state
inviate al fronte, organizzarono nella prima quindicina di ottobre, una massiccia operazione di aviolanci di armi e materiali destinati alla
Resistenza, anche se bisogna dire che essi furono ben poca cosa a confronto
delle enormi esigenze della lotta partigiana.
A questo
fine furono stabilite delle aree idonee e concordati messaggi radio in codice,
con le formazioni della Resistenza, operanti in Liguria e Piemonte per
stabilire il luogo e la data di lancio.
Per molti
partigiani iniziarono notti di attese, accanto a cataste di fascine da incendiare
all’ora stabilita e ad affrontare le inevitabili polemiche tra formazioni, per
la suddivisione di armi, munizioni, vestiario a volte ancor prima dell’arrivo
dei materiali.
Si è sempre
saputo poco sugli obbiettivi e sui destinatari di questa operazione, ma ora,
grazie ed un’accurata ricerca di Beppe Barbero, che ha messo a confronto la
documentazione disponibile si può stabilire che gli obbiettivi ai quali
destinare gli aiuti erano quattro: il primo denominato CHRYSLER era la zona
dell’Ossola; il secondo MORRIS era ubicato ad est di Genova; gli altri due:
DODGE e PARROT: per queste due aree di lancio
l’identificazione risulta più incerta, ma si ritiene però che la prima
zona fosse nei pressi di Bra, mentre la seconda tra Vigone e il Torrente
Pellice.
L’attuazione
di questa missione fu assegnata al 31° e
34° Squadrone della South African Air Force, inquadrati nella R.A.F. Questi due
squadroni erano stati costituiti il primo, nel gennaio 1944 e il secondo nel
luglio dello stesso anno. Il personale sudafricano, giunse in Egitto e una
parte di piloti e specialisti si recò in Palestina per addestrarsi sugli
aerei Liberator 24 messi a disposizione
dagli americani.
Dopo alcune
operazioni nel mar Egeo, a metà giugno, gli aerei furono spostati all’aeroporto
di Celone, vicino a Foggia, già occupato dagli americani.
Da luglio a
settembre, questi squadroni, con equipaggi misti formati in prevalenza da
sudafricani ed inglesi, cominciarono le operazioni belliche sui Balcani con
bombardamenti alle raffinerie ungheresi e romene e con arditi lanci di mine,
lungo il corso del Danubio per ostacolare i rifornimenti alla Germania
attraverso quell’importante via d’acqua.
Nella prima decade di
ottobre il maltempo influì pesantemente sull’operatività dell’aeroporto di
Celone con veri e propri allagamenti che avevano reso la pista inagibile e
questo fece continuamente slittare la massiccia operazione di rifornimento ai
partigiani del nord Italia.
Il maltempo era destinato a durare, ma una breve fase di
condizioni meteorologiche accettabili, fu prevista per il giorno 12 ottobre e
così venne dato l’avvio a quella che si rivelerà come la più disastrosa e
tragica missione costata alla S.A.A.F.: 6 aerei e 48 uomini di equipaggio,
persi nel giro di qualche ora non perché abbattuti dal nemico, ma per incidenti
causati dalle pessime condizioni meteorologiche.
Un tragico destino penalizzò il 31° squadrone al quale fu
chiesto di rendere operativi tutti gli equipaggi e i 16 aerei disponibili, ai
quali si aggiunsero solo 4 del 34° squadrone, per permettere al personale di
partecipare ad una festa da ballo organizzata a Foggia.
Quel tragico 12 ottobre ’44, fu quindi pianificato l’invio
di venti aerei, cinque per ognuna delle zone di lancio previste. Un impegno
notevole che richiese una preparazione complessa. I meccanici ed il personale
di terra lavorarono tutto il giorno; si caricarono nel vano bombe di ogni aereo
12 contenitori paracadutabili da 300 libbre (150 Kg), mentre agli
equipaggi venivano illustrati gli obbiettivi e vennero rese note le coordinate
e le segnalazioni ottiche concordate per il riconoscimento degli obbiettivi a
terra.
Intanto le condizioni meteorologiche, non migliorarono di
molto rivelandosi peggiori del previsto, soprattutto nei cieli del nord-Italia,
con una nuvolosità estesa tra i 1500-3000 metri, ma la macchina organizzativa si era
messa in moto e nonostante ciò fu dato l’ordine di decollare.
I giganteschi quadrimotori Liberator 24 rullarono sulla
pista e decollarono tra le ore 16:00 e
le 16:40, dirigendosi sulla verticale dell’isola di Ponza, per poi raggiungere,
sempre sorvolando il mare, le coste della Liguria e da qui agli obbiettivi
assegnati.
Da notare che gli aerei dovettero affidarsi alla navigazione
cieca con grande preoccupazione dei navigatori e dei piloti che si rendevano
conto della pericolosità di tali operazioni in un’area circondata da montagne
di quota elevata.
Quando sorvolarono il Piemonte erano quasi le ore 20, e il
buio e il cielo coperto costrinsero i piloti a scendere al disotto della quota
di sicurezza nel tentativo di avvistare qualche segnale per poter effettuare i
lanci. Fu una manovra rischiosissima, che segnò tragicamente la missione.
Dei venti aerei partiti solo tre riuscirono ad effettuare il
lancio degli aiuti, altri 11 dopo aver inutilmente cercato di individuare gli
obbiettivi, rientrarono alla base e i restanti 6 velivoli furono attesi invano
e nessun collegamento radio poté essere stabilito con loro.
Trascorso il tempo limite di autonomia e senza comunicazioni
da altre basi in merito ad eventuali atterraggi di fortuna o segnalazioni sulla
loro sorte, furono dichiarati dispersi.
L’impatto psicologico sul reparto fu
pesantissimo con la perdita di 48 uomini, tutti del 31° squadrone, in una
missione che sarebbe stata non particolarmente pericolosa se svolta con tempo
meteo buono, in quanto nessuno degli aerei rientrati aveva segnalato
l’intervento dell’antiaerea a parte una debole reazione nell’area di Genova, né
erano stati segnalati caccia notturni in azione.
Le ipotesi sulle perdite si concentrarono
da subito sull’eventualità di incidenti contro le montagne e successivi
rapporti delle missioni alleate in Piemonte
confermarono la tesi segnalando il ritrovamento da parte dei partigiani
di due aerei schiantatisi sulle montagne a Ovest dell’obiettivo PARROT.
Per gli altri equipaggi caduti in
aree più impervie fu necessario attendere la fine delle ostilità, quando con la
raccolta di segnalazioni sul rinvenimento di aerei alleati abbattuti o
precipitati, fu possibile risalire alle località degli incidenti e ai luoghi di
sepoltura degli aviatori.
Di un velivolo destinato alla missione MORRIS, non fu mai
possibile reperire alcuna notizia, così che si ipotizzò che potesse essere
disperso in mare, anche in considerazione della vicinanza della zona di lancio alla costa.
Quella tragica sera, la Valle Soana era sferzata dalla
pioggia e tutte le montagne coperte da una spessa coltre di nubi, il buio era
già sceso e gli abitanti si erano ritirati nelle loro case, quando un forte
bagliore illuminò la valle seguito da un forte boato.
Subito fu chiaro a tutti che non poteva essere stato un
fulmine e si affacciarono sull’uscio a scrutare il cielo.
Nazzareno Valerio, “Eno” per tutti, guida alpina, all’epoca
aveva solo 7 anni, ma degli eventi di quella notte ancora si ricorda e in
un’intervista rilasciata al giornale “La Stampa” disse che quella sera, dopo il boato, si
intravidero tra le nebbie delle lingue di fuoco e dei bagliori alzarsi
nell’alta valle dell’Arlens, oltre i 2200 metri, quasi sullo spartiacque fra la Val Soana e la Val Chiusella.
Quello schianto era la fine del volo dell’aereo
contrassegnato KG875, uno dei 20 Liberator decollati dall’aeroporto di Celone
in Puglia e uno dei sei precipitati di
quella sfortunata missione.
Era decollato alle 16.15 e aveva come obbiettivo la zona
denominata CHRYSLER che comprendeva la bassa valle del Toce a nord del lago
d’Orta.
Non si conosce la dinamica dell’incidente, potrebbe essere
che giunto sulla Liguria, abbia seguito l’arco alpino per evitare di essere individuato
e attaccato e probabilmente per le pessime condizioni meteorologiche o uno
sbaglio di rotta aver urtato il crinale tra la Valle Soana e la Val Chiusella.
Certo è che non vi fu scampo per l’equipaggio, che era
formato da 8 uomini al comando del sudafricano capitano pilota Beukes Leonard
von Solms di 27 anni, nato a Pretoria nella regione del Transvaal, sposato e da poco padre di una
bimba. Gli altri membri dell’equipaggio erano tre sudafricani e 4 inglesi, due
avevano appena 20 anni.
Il luogo impervio in cui l’aereo cadde e le successive
abbondanti nevicate, ostacolarono il recupero delle salme, che furono portate a
valle solo nella primavera del 1945 ed
inumate nel cimitero di Pianetto.
Appena fu possibile
iniziò però il saccheggio dell’aereo e dei materiali non andati distrutti nello
schianto.
Molte lamiere divennero coperture per le baite e parti
dell’aereo furono smontate e utilizzate per gli usi più svariati, suggeriti
dalla penuria di quegli anni di guerra; i rottami della carcassa divenne una
miniera di metalli ferrosi, ma anche pregiati come l’alluminio, il rame, ecc.
molto ricercati all’epoca.
Intanto con l’avvenuta Liberazione, le autorità del governo
militare alleato avevano iniziato il lavoro di ricerca e censimento delle
località in cui erano sepolti i caduti alleati, raccogliendo le segnalazioni
delle formazioni partigiane e delle autorità comunali.
Una delegazione Alleata venne anche in Val Soana e organizzò
la riesumazione degli otto aviatori facendoli portare a Trenno, nella periferia
milanese dove sorge il Cimitero di guerra di Milano e riposano 417 caduti della
seconda guerra mondiale, appartenenti alle nazioni del Commonwealth che
parteciparono alla lotta di liberazione in nord Italia.
La stessa delegazione scrisse in una sua relazione, che
l’aereo“ Liberator caduto sulla montagna dell’Arlens, venne letteralmente
smantellato dagli abitanti delle valli.” Da allora degli 8 aviatori e dell’aereo
quasi si perse la memoria e pochi erano quelli che conoscevano l’esatto luogo
dello schianto. Chi scrive, qualche anno fa, ha avuto l’occasione di
partecipare insieme ad un gruppo di amici, tra i quali il direttore del
Canavèis, ad un’escursione guidata da Lino Fogliasso su quelle montagne. Dopo
una lunga marcia giungemmo sul luogo dell’impatto e fu un momento toccante il
rivivere con il pensiero la tragedia di quegli otto giovani avieri, due dei
quali appena ventenni.
Nei dintorni alcuni pezzi dell’aereo erano ancora incastrati
tra le rocce del torrente e il più grande, la parte terminale del carrello,
aveva l’ammortizzatore che sosteneva i pneumatici ancora con la cromatura luccicante.
Lo scorso anno grazie al Soccorso Alpino e alla Pro Loco di
Valprato Soana, che hanno voluto l’iniziativa, questo reperto è stato
trasportato a valle con l’elicottero e adagiato accanto ad un masso di granito,
ed ora costituisce il monumento dedicato ai caduti del Liberator KG875.
La cerimonia di inaugurazione si è svolta a Pianetto dove
sorge il monumento e con le Autorità civili militari e religiose erano presenti
anche un gruppo di parenti dei caduti giunti per l’occasione dal Sudafrica e
dall’Inghilterra. Sono stati momenti commoventi, con la banda degli alpini che
suonava i rispettivi inni nazionali e un famigliare delle vittime che scandiva
i nomi dei caduti.
Dopo quasi 70 anni, quei ragazzi venuti da lontano, che
dettero la loro vita per aiutare altri ragazzi, che tra quelle montagne
lottavano per una causa comune, finalmente sono ricordati e i loro nomi sono scolpiti nella
lapide che ricorda il loro sacrificio.
0 Commenti:
Posta un commento
Iscriviti a Commenti sul post [Atom]
<< Home page