martedì 8 dicembre 2015

Mario Rigoni Stern RICORDI CANAVESANI

In occasione dell’incontro con Mario Rigoni Stern, avvenuto in Asiago il 30 ottobre 1999, filmai gli incontri e i racconti da lui fatti sul filo della memoria, alcuni dei quali stimolati dalle nostre domande.
Questo per conservarne una memoria  audiovisiva.
Ciò ha permesso di trascrivere fedelmente ciò che ci andava raccontando.
La parte di seguito riportata è quella che più riguarda Castellamonte,  in parte già citata dal Rigoni Stern in alcuni suoi libri e articoli.
Il mio intervento è stato solo quello di radunarli e di riordinarli secondo il loro sviluppo cronologico. Ne è venuto fuori un piccolo racconto che spero i nostri concittadini apprezzeranno.
                                                                                                                         Emilio  Champagne

Mario Rigoni  Stern                 RICORDI      CANAVESANI           


Il mio rapporto con la vostra terra va molto indietro nel tempo,  a quando nel 1938 mi arruolai volontario alla scuola militare di alpinismo  di Aosta  per diventare maestro di sci e guida alpina.
Avevo poco più di 17 anni e fu un’esperienza importante che mi portò a conoscere ed amare le vostre montagne. Ricordo la prima ascensione invernale del Gran Paradiso nel febbraio del ‘39 effettuata con i miei commilitoni con gli sci lo zaino affardellato e il fucile mitragliatore a tracolla. Poi tante cime  e passi  nella  alta valle dell’Orco e Valle d’Aosta.
Fu proprio lì che nel settembre del 1939 fui dal Comando inviato come istruttore  presso il 6° alpini  stanziato in Canavese  con sede a Castellamonte.
Al mio arrivo, dopo stagioni e inverni passati in alta quota, i colli di Castellamonte e del Canavese mi sembravano una solatia riviera.
A Castellamonte eravamo accasermati in un edificio che era stato utilizzato da un pastificio per far seccare la pasta; era posto dietro  il ristorante “Tre Re”, vicino ad un rivo.
Il quel luogo la disciplina della caserma era dimenticata, la nostra maniera di vivere aveva un aspetto paesano più che militare. Ricordo però che a Castellamonte  il vitto che ci passava l’esercito era veramente poco, non  so  se ciò era dovuto al gran numero di soldati,   a inefficienza o cosa altro, ma si faceva la fame  e ci si arrangiava  a raccogliere castagne vecchie  su per le colline  o quando cominciava a spuntare il radicchio selvatico, (la cicoria), la raccoglievamo  per fare delle insalate con cipolle.
 A parte le manovre tattiche che facevamo una volta alla settimana, persino la marcia del venerdì e le esercitazioni in roccia che facevamo in una cava abbandonata di Vistrorio avevano assunto un aspetto famigliare, perché durante il tragitto si incontrava sempre gente che ci salutava cordialmente e nella palestra di roccia ci facevano visita i contadini che sospendevano di legare le viti per vedere e commentare le nostre discese  a corda doppia.
La marcia del venerdì non era la fatidica e faticosa camminata con lo zaino affardellato di ogni cosa; il nostro capitano era un richiamato, un tipo un po’ “matto” e soprattutto non pignolo da controllare il peso dello zaino a lui bastava l’apparenza. Quando ci guidava nelle marce su per le vostre colline dalle strade tortuose camminava sempre davanti con un passo velocissimo, mentre noi andavamo ad un’andatura normale. Ogni tanto si voltava e non trovando il reparto  si sedeva e aspettava poi riprendeva spedito e lo si ritrovava  più avant,  magari appoggiato ad un palo della vigna che parlava con una contadina intenta nei lavori.
Quando si trovava un’osteria entravamo, noi  avevamo pochi soldi e allora lui diceva “se un alpino  paga un bicchiere  di vino, il comandante ne offre 2 litri” e ci offriva da bere.

Un giorno venendo giù da Cuorgnè sullo stradone , poco prima di Castellamonte trovammo per strada degli allievi dell’accademia ...penso di Pinerolo. Quando questi videro  il nostro reparto arrivare, come da dovere si schierarono sul present-arm e noi sfilammo davanti loro sotto una pioggia battente.
Ricevuti gli onori, il gaio comandante ordinò l’alt e zaino a terra ; ci fece spogliare a torso nudo e sempre sotto la pioggia scrosciante, ricaricare lo zaino in spalla, dietrofront e risfilare davanti agli allievi allibiti, per avere ancora gli onori. Poi arrivati a Castellamonte offrì di tasca sua nuovamente del vino a tutti.
Ogni giorno c’era un episodio buffo o allegro  o nelle osterie o negli accantonamenti o sui balli a palchetto; tutto questo era forse dovuto alla nostra inconscia giovinezza che viveva l’ultima primavera di pace prima dell’orrendo massacro della guerra.

A maggio del 1940 ricevetti l’ordine di andare a Campiglia in Val Soana per fare l’istruttore di roccia. Ebbene vi dico, io ho avuto molti momenti felici nella mia vita, ma forse quei giorni passati a Campiglia sono stati i più belli.
Lì,  il pane arrivava da Valprato, il nostro mulo andava giù a prenderlo, era un pane fragrante, gustoso, a forma di micche basse, ....un pane che si scioglieva nella bocca ed era anche abbondante: un Kg a testa.
A Campiglia gli uomini erano pochi , erano a  militare o a lavorare, erano rimasti le donne, il parroco , due guardie parco e  molti bambini.
Alla sera ci radunavamo nella piazzetta del monumento e noi con le corde da roccia facevamo giocare i bambini, poi il parroco suonava le campane e via tutti a recitare il rosario e poi usciti dalla chiesa tutti in osteria e in osteria alla domenica veniva Giuvanindla fisa . Era  già anziano e bisognava che uno di noi andasse giù a Pont per portargli su la fisarmonica.
Giuvanin suonava e noi ballavamo. Io non ero un gran ballerino e con gli scarponi chiodati ho levato un’unghia alla maestrina del paese. Potete immaginare come fui mortificato e non ballai più. Il mio compito fu allora quello di procurare pane e formaggio e versare da bere a Giuvanin ‘dla fisa  che suonava.
Mi accorsi però che qualcosa non andava: gli riempivo il bicchiere e dopo un attimo era vuoto, lo riempivo e lo ritrovavo immediatamente vuoto. Allora lo tenni d’occhio e vidi  che Giuvanin ‘dla fisa  sotto la giacca teneva una bottiglia con un piccolo imbuto, beveva metà bicchiere e non visto, l’altra metà  la versava nella bottiglia,  per farsi la scorta a casa.

Quando ero libero dal corso di roccia andavo su al Pian della Azaria , per me quel luogo è sempre stato il più bello del mondo: i prati fioriti, il torrente  ricco di trote e i camosci  che avevano da poco partorito  con  i piccoli che scivolavano sulle chiazze di neve dei pendii... e poi c’era la maestrina..... un luogo bellissimo tanto è vero che quando mi trovavo prigioniero in Germania o nelle montagne dell’Albania o nella steppa Russa per consolarmi e per cambiare dalla mia mente il paesaggio pensavo al pian della Azaria.
Anche durante la ritirata di Russia nei momenti di maggior sconforto pensavo che lassù in Val Soana c’era il pian dell’Azaria che rappresentava per me un luogo della memoria, un vero paradiso terrestre.
All’ora avevo 18 anni, ero innamorato, il paesaggio così bello e facevo roccia con i miei amici.....ero veramente felice.
Andavamo a S. Besso e il grande sasso al quale è addossata la chiesa era la nostra palestra. Il nostro gioco era arrampicarsi sino in cima dove c’è la cappelletta.

Ricordando questo però ricordo anche tanti compagni che non sono più tornati a casa: a questo corso di rocciatori alpini eravamo una sessantina. Tra l’Albania, la Russia e la prigionia siamo ritornati vivi in tre.
Il primo a morire fu già lì a Campiglia, si chiamava Paglia, ritornando da S.Besso scivolava allegramente sull’erba, cantava, ma era troppo felice e non si accorse che c’era un dirupo, non si fermò più e si sfracellò.
Lo portammo nella chiesa di Campiglia e lo coprimmo di fiori, tutti venivano a trovarlo e noi lo vegliammo sino a quando arrivarono i genitori e lo portarono al paese.

Uno di quelli che sopravvissero lo incontrai durante la ritirata di Russia, era finito in un altro battaglione ed era tempo che non lo vedevo  e un giorno camminando sulla neve dopo la battaglia di Nikholaevka mi sento chiamare; era lui, uno dei ragazzi  con cui arrampicavo a S. Besso e insieme  ci salvammo.
Molti anni dopo la guerra,  scrissi un articolo per “La Stampa” ricordando il Canavese  e in seguito ricevetti una lettera: era la maestrina di Campiglia, a cui avevo levato un unghia al ballo e  diceva: ... Sig.Rigoni, lei forse non si ricorda, ma ero io la maestrina,  mi ricordo di voi, di quanto bene ci volevamo, di quei giorni felici.....
Certo, ricordo anch’io quei giorni felici, però giorni felici prima della bufera.
Capita ogni tanto di avere uno sprazzo di felicità prima della tragedia.....ma poi venne la tragedia.
Nei primissimi giorni di giugno del 1940 la guerra con la Francia era ormai nell’aria e ricevemmo l’ordine di scendere a Castellamonte.
Passarono pochi giorni  e arrivò un telegramma che ci ordinò di partire per la Valle di Aosta.
Gli ultimi ricordi di Castellamonte furono le tiepide  serate dei primi di giugno, piene di rondini che volavano attorno alla chiesa e alla sua rotonda...non ne avevo mai viste tante.
Il giorno della partenza lasciai le mie cose e l’indirizzo  ad una signora che abitava lì vicino al ponticello sul rivo, e lei me le inviò a casa, con dentro al pacco anche le poche lire che le avevo lasciato per le spese postali.
Venne la partenza  e zaino in spalla, a piedi, abbiamo percorso la strada verso Ivrea con le ragazze che ci accompagnavano lungo la strada piangendo e gettandoci i fiori.
Ricordo che attraversammo Ivrea e poi su in Val di Aosta.
Eravamo accampati in un bosco di Aymavilles quando fu dichiarata la guerra.
Era il 10 giugno del 1940, ricordo che giocavamo alla morra quando un alpino che era andato a comprare due gavette di vino ritornò e disse: Mussolini ha dichiarato la guerra, per l’Italia gridano tutti come matti”
Tra noi venne un gran silenzio e venne anche un sergente e un sottotenente, tutti e due poi caduti in Russia e dissero “Spegnete il fuoco, pisciateci sopra e state zitti: siamo in guerra.”  
Ma state tranquilli che fra noi lassù nessuno gridava.


Da quel giorno iniziarono 5 anni di tragedieDopo la primavera canavesana  vennero le notti di veglia sui desolati monti dell’Albania e il parlare sussurrato accanto al fuoco rievocava i paesi, le ragazze, le osterie e il ricordo allontanava la miseria di quella realtà.
E in Russia quando un compagno riceveva una lettera da Castellamonte o da Rueglio, o da Valperga era come se un soffio d’amore ci portasse in quella terra e volevamo sapere le novità, come se quelli fossero i nostri paesi.
Forse molti compagni  sono morti in quelle bufere con l’immagine  di una ragazza, di un festoso sabato, di una stradina tra le vigne, di una bottiglia di vino.
E anche nelle baracche i sopravvissuti a quegli inverni, rievocavano le calde stalle ospitali del Canavese e i tetti delle cascine sparse dove i contadini in cambio di qualche nostro servizio campagnolo,  offrivano polenta e tomini al nostro giovane appetito.

Dopo 42 anni  ho voluto tornare in Canavese . Parlando con la gente ho potuto capire quanto vivo ancora è il nostro ricordo.
Ma a Campiglia Val Soana, non c’è più la maestrina, non c’è più la scuola, non c’è il parroco e  sono rimasti davvero in pochi.
Sono arrivato a Castellamonte e sono andato a mangiare ai “ Tre Re” dove una volta ci andava a mangiare il Colonnello e adesso ci andavo io.
Domandai al figlio del vecchio proprietario che conoscevo, se esisteva  ancora il vecchio pastificio dove eravamo accantonati; mi disse di sì e gentilmente mi accompagnò.
Passato il ponticello sul rivo mi ritrovai nel cortile del rancio e dell’adunata.
Volli entrare , in quelle camerate tutti avevano lasciato un pensiero, uno scritto, un nome, un cuore trafitto, cose del genere.
Sono entrato nell’edificio, ma i muri erano stati imbiancati da poco, più nessun nome, nessuna frase si poteva leggere; ma in quel momento  ho ritrovato i visi, i nomi e i ricordi; come quello di un alpino  che una domenica, essendo di corvè, venne da me, che quel giorno ero caporale di giornata, dicendomi che aveva un appuntamento con una ragazza di Baldissero e che se avesse lavato le marmitte, pulito il cortile e spaccato la legna, l’appuntamento sarebbe sfumato.
Come potevo proibirgli per esigenze di servizio di non andare ad un ballo paesano in una sera di aprile?
Ritornò all’alba poco prima della sveglia e non successe nulla al nostro esercito, ma per lui forse, quella fu  la notte più  felice , perché il 26 gennaio del 1943 lasciò la vita sul terrapieno della ferrovia di Nkholaevka.

Vedete quanti ricordi mi legano alla vostra terra, io penso che tutti quelli che erano dalle vostre parti  in quel periodo che precedeva la guerra, che hanno visto le vostre montagne, ovunque vadano  le portano  sempre dentro di sè.

Tenetevi care le vostre montagne, tenetevi care le vostre pezzate rosse, le tome che sono sempre squisite.
Tenetevi care le vostre montagne e difendetele!
Questo è il mio augurio e grazie per questa visita ad Asiago, per il vostro saluto che mi portate.... e portate il mio saluto  alla vostra terra.
Ero  un ragazzo allora, che camminava su di là come un camoscio, ora sono un vecchio che va piano, ma io ho nel cuore le vostre montagne.

Portateci il mio saluto!






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