In
occasione dell’incontro con Mario Rigoni Stern, avvenuto in Asiago il 30
ottobre 1999, filmai gli incontri e i racconti da lui fatti sul filo della
memoria, alcuni dei quali stimolati dalle nostre domande.
Questo
per conservarne una memoria audiovisiva.
Ciò
ha permesso di trascrivere fedelmente ciò che ci andava raccontando.
La
parte di seguito riportata è quella che più riguarda Castellamonte, in parte già citata dal Rigoni Stern in
alcuni suoi libri e articoli.
Il
mio intervento è stato solo quello di radunarli e di riordinarli secondo il
loro sviluppo cronologico. Ne è venuto fuori un piccolo racconto che spero i
nostri concittadini apprezzeranno.
Emilio Champagne
Mario
Rigoni Stern RICORDI CANAVESANI
Il
mio rapporto con la vostra terra va molto indietro nel tempo, a quando nel 1938 mi arruolai volontario
alla scuola militare di alpinismo di
Aosta per diventare maestro di sci e
guida alpina.
Avevo
poco più di 17 anni e fu un’esperienza importante che mi portò a conoscere ed
amare le vostre montagne. Ricordo la prima ascensione invernale del Gran
Paradiso nel febbraio del ‘39 effettuata con i miei commilitoni con gli sci lo
zaino affardellato e il fucile mitragliatore a tracolla. Poi tante cime e passi
nella alta valle dell’Orco e
Valle d’Aosta.
Fu
proprio lì che nel settembre del 1939 fui dal Comando inviato come
istruttore presso il 6° alpini stanziato in Canavese con sede a Castellamonte.
Al
mio arrivo, dopo stagioni e inverni passati in alta quota, i colli di
Castellamonte e del Canavese mi sembravano una solatia riviera.
A
Castellamonte eravamo accasermati in un edificio che era stato utilizzato da un
pastificio per far seccare la pasta; era posto dietro il ristorante “Tre Re”, vicino ad un rivo.
Il
quel luogo la disciplina della caserma era dimenticata, la nostra maniera di
vivere aveva un aspetto paesano più che militare. Ricordo però che a Castellamonte il vitto che ci passava l’esercito era
veramente poco, non so se ciò era dovuto al gran numero di soldati, a inefficienza o cosa altro, ma si faceva la fame e ci si arrangiava a raccogliere castagne vecchie su per le colline o quando cominciava a spuntare il radicchio
selvatico, (la cicoria), la raccoglievamo
per fare delle insalate con cipolle.
A parte le manovre tattiche che facevamo una
volta alla settimana, persino la marcia del venerdì e le esercitazioni in
roccia che facevamo in una cava abbandonata di Vistrorio avevano assunto un
aspetto famigliare, perché durante il tragitto si incontrava sempre gente che
ci salutava cordialmente e nella palestra di roccia ci facevano visita i
contadini che sospendevano di legare le viti per vedere e commentare le nostre
discese a corda doppia.
La
marcia del venerdì non era la fatidica e faticosa camminata con lo zaino
affardellato di ogni cosa; il nostro capitano era un richiamato, un tipo un po’
“matto” e soprattutto non pignolo da controllare il peso dello zaino a lui
bastava l’apparenza. Quando ci guidava nelle marce su per le vostre colline
dalle strade tortuose camminava sempre davanti con un passo velocissimo, mentre
noi andavamo ad un’andatura normale. Ogni tanto si voltava e non trovando il
reparto si sedeva e aspettava poi
riprendeva spedito e lo si ritrovava più
avant, magari appoggiato ad un palo
della vigna che parlava con una contadina intenta nei lavori.
Quando
si trovava un’osteria entravamo, noi
avevamo pochi soldi e allora lui diceva “se un alpino paga un bicchiere di vino, il comandante ne offre 2 litri” e ci offriva da
bere.
Un
giorno venendo giù da Cuorgnè sullo stradone , poco prima di Castellamonte
trovammo per strada degli allievi dell’accademia ...penso di Pinerolo. Quando
questi videro il nostro reparto
arrivare, come da dovere si schierarono sul present-arm e noi sfilammo davanti
loro sotto una pioggia battente.
Ricevuti
gli onori, il gaio comandante ordinò l’alt
e zaino a terra ; ci fece spogliare a
torso nudo e sempre sotto la pioggia scrosciante, ricaricare lo zaino in
spalla, dietrofront e risfilare
davanti agli allievi allibiti, per avere ancora gli onori. Poi arrivati a
Castellamonte offrì di tasca sua nuovamente del vino a tutti.
Ogni
giorno c’era un episodio buffo o allegro
o nelle osterie o negli accantonamenti o sui balli a palchetto; tutto
questo era forse dovuto alla nostra inconscia giovinezza che viveva l’ultima
primavera di pace prima dell’orrendo massacro della guerra.
A
maggio del 1940 ricevetti l’ordine di andare a Campiglia in Val Soana per fare
l’istruttore di roccia. Ebbene vi dico, io ho avuto molti momenti felici nella
mia vita, ma forse quei giorni passati a Campiglia sono stati i più belli.
Lì, il pane arrivava da Valprato, il nostro mulo
andava giù a prenderlo, era un pane fragrante, gustoso, a forma di micche
basse, ....un pane che si scioglieva nella bocca ed era anche abbondante: un Kg
a testa.
A
Campiglia gli uomini erano pochi , erano a
militare o a lavorare, erano rimasti le donne, il parroco , due guardie
parco e molti bambini.
Alla
sera ci radunavamo nella piazzetta del monumento e noi con le corde da roccia
facevamo giocare i bambini, poi il parroco suonava le campane e via tutti a
recitare il rosario e poi usciti dalla chiesa tutti in osteria e in osteria
alla domenica veniva Giuvanin ‘dla fisa . Era già anziano e bisognava che uno di noi
andasse giù a Pont per portargli su la fisarmonica.
Giuvanin suonava e noi ballavamo. Io non ero un gran ballerino e con
gli scarponi chiodati ho levato un’unghia alla maestrina del paese. Potete
immaginare come fui mortificato e non ballai più. Il mio compito fu allora
quello di procurare pane e formaggio e versare da bere a Giuvanin ‘dla fisa che
suonava.
Mi
accorsi però che qualcosa non andava: gli riempivo il bicchiere e dopo un
attimo era vuoto, lo riempivo e lo ritrovavo immediatamente vuoto. Allora lo
tenni d’occhio e vidi che Giuvanin ‘dla fisa sotto la giacca teneva una bottiglia con un
piccolo imbuto, beveva metà bicchiere e non visto, l’altra metà la versava nella bottiglia, per farsi la scorta a casa.
Quando
ero libero dal corso di roccia andavo su al Pian della Azaria , per me quel
luogo è sempre stato il più
bello del mondo: i prati fioriti, il torrente
ricco di trote e i camosci che
avevano da poco partorito con i piccoli che scivolavano sulle chiazze di
neve dei pendii... e poi c’era la maestrina..... un luogo bellissimo tanto è
vero che quando mi trovavo prigioniero in Germania o nelle montagne
dell’Albania o nella steppa Russa per consolarmi e per cambiare dalla mia mente
il paesaggio pensavo al pian della Azaria.
Anche
durante la ritirata di Russia nei momenti di maggior sconforto pensavo che
lassù in Val Soana c’era il pian dell’Azaria che rappresentava per me un luogo
della memoria, un vero paradiso terrestre.
All’ora
avevo 18 anni, ero innamorato, il paesaggio così bello e facevo roccia con i
miei amici.....ero veramente felice.
Andavamo
a S. Besso e il grande sasso al quale è addossata la chiesa era la nostra
palestra. Il nostro gioco era arrampicarsi sino in cima dove c’è la
cappelletta.
Ricordando
questo però ricordo anche tanti compagni che non sono più tornati a casa: a
questo corso di rocciatori alpini eravamo una sessantina. Tra l’Albania, la Russia e la prigionia siamo
ritornati vivi in tre.
Il
primo a morire fu già lì a Campiglia, si chiamava Paglia, ritornando da S.Besso
scivolava allegramente sull’erba, cantava, ma era troppo felice e non si
accorse che c’era un dirupo, non si fermò più e si sfracellò.
Lo
portammo nella chiesa di Campiglia e lo coprimmo di fiori, tutti venivano a
trovarlo e noi lo vegliammo sino a quando arrivarono i genitori e lo portarono
al paese.
Uno
di quelli che sopravvissero lo incontrai durante la ritirata di Russia, era
finito in un altro battaglione ed era tempo che non lo vedevo e un giorno camminando sulla neve dopo la
battaglia di Nikholaevka mi sento chiamare; era lui, uno dei ragazzi con cui arrampicavo a S. Besso e insieme ci salvammo.
Molti
anni dopo la guerra, scrissi un articolo
per “La Stampa”
ricordando il Canavese e in seguito
ricevetti una lettera: era la maestrina di Campiglia, a cui avevo levato un
unghia al ballo e diceva: ...
Sig.Rigoni, lei forse non si ricorda, ma ero io la maestrina, mi ricordo di voi, di quanto bene ci
volevamo, di quei giorni felici.....
Certo,
ricordo anch’io quei giorni felici, però giorni felici prima della bufera.
Capita
ogni tanto di avere uno sprazzo di felicità prima della tragedia.....ma poi
venne la tragedia.
Nei
primissimi giorni di giugno del 1940 la guerra con la Francia era ormai
nell’aria e ricevemmo l’ordine di scendere a Castellamonte.
Passarono
pochi giorni e arrivò un telegramma che
ci ordinò di partire per la
Valle di Aosta.
Gli
ultimi ricordi di Castellamonte furono le tiepide serate dei primi di giugno, piene di rondini
che volavano attorno alla chiesa e alla sua rotonda...non ne avevo mai viste
tante.
Il
giorno della partenza lasciai le mie cose e l’indirizzo ad una signora che abitava lì vicino al
ponticello sul rivo, e lei me le inviò a casa, con dentro al pacco anche le
poche lire che le avevo lasciato per le spese postali.
Venne
la partenza e zaino in spalla, a piedi,
abbiamo percorso la strada verso Ivrea con le ragazze che ci accompagnavano
lungo la strada piangendo e gettandoci i fiori.
Ricordo
che attraversammo Ivrea e poi su in Val di Aosta.
Eravamo
accampati in un bosco di Aymavilles quando fu dichiarata la guerra.
Era
il 10 giugno del 1940, ricordo che giocavamo alla morra quando un alpino che
era andato a comprare due gavette di vino ritornò e disse: Mussolini ha
dichiarato la guerra, per l’Italia gridano tutti come matti”
Tra
noi venne un gran silenzio e venne anche un sergente e un sottotenente, tutti e
due poi caduti in Russia e dissero “Spegnete il fuoco, pisciateci sopra e state
zitti: siamo in guerra.”
Ma
state tranquilli che fra noi lassù nessuno gridava.
Da
quel giorno iniziarono 5 anni di tragedie. Dopo la
primavera canavesana vennero le notti di
veglia sui desolati monti dell’Albania e il parlare sussurrato accanto al fuoco
rievocava i paesi, le ragazze, le osterie e il ricordo allontanava la miseria
di quella realtà.
E
in Russia quando un compagno riceveva una lettera da Castellamonte o da
Rueglio, o da Valperga era come se un soffio d’amore ci portasse in quella
terra e volevamo sapere le novità,
come se quelli fossero i nostri
paesi.
Forse
molti compagni sono morti in quelle
bufere con l’immagine di una ragazza, di
un festoso sabato, di una stradina tra le vigne, di una bottiglia di vino.
E
anche nelle baracche i sopravvissuti a quegli inverni, rievocavano le calde
stalle ospitali del Canavese e i tetti delle cascine sparse dove i contadini in
cambio di qualche nostro servizio campagnolo,
offrivano polenta e tomini al nostro giovane appetito.
Dopo
42 anni ho voluto tornare in Canavese .
Parlando con la gente ho potuto capire quanto vivo ancora è il nostro ricordo.
Ma
a Campiglia Val Soana, non c’è più la maestrina, non c’è più la scuola, non c’è
il parroco e sono rimasti davvero in
pochi.
Sono
arrivato a Castellamonte e sono andato a mangiare ai “ Tre Re” dove una volta
ci andava a mangiare il Colonnello e adesso ci andavo io.
Domandai
al figlio del vecchio proprietario che conoscevo, se esisteva ancora il vecchio pastificio dove eravamo
accantonati; mi disse di sì e gentilmente mi accompagnò.
Passato
il ponticello sul rivo mi ritrovai nel cortile del rancio e dell’adunata.
Volli
entrare , in quelle camerate tutti avevano lasciato un pensiero, uno scritto,
un nome, un cuore trafitto, cose del genere.
Sono
entrato nell’edificio, ma i muri erano stati imbiancati da poco, più nessun
nome, nessuna frase si poteva leggere; ma in quel momento ho ritrovato i visi, i nomi e i ricordi; come
quello di un alpino che una domenica,
essendo di corvè, venne da me, che quel giorno ero caporale di giornata,
dicendomi che aveva un appuntamento con una ragazza di Baldissero e che se
avesse lavato le marmitte, pulito il cortile e spaccato la legna,
l’appuntamento sarebbe sfumato.
Come
potevo proibirgli per esigenze di servizio di non andare ad un ballo paesano in
una sera di aprile?
Ritornò
all’alba poco prima della sveglia e non successe nulla al nostro esercito, ma
per lui forse, quella fu la notte
più felice , perché il 26 gennaio del 1943 lasciò la vita sul terrapieno
della ferrovia di Nkholaevka.
Vedete
quanti ricordi mi legano alla vostra terra, io penso che tutti quelli che erano
dalle vostre parti in quel periodo che
precedeva la guerra, che hanno visto le vostre montagne, ovunque vadano le portano
sempre dentro di sè.
Tenetevi
care le vostre montagne, tenetevi care le vostre pezzate rosse, le tome che
sono sempre squisite.
Tenetevi
care le vostre montagne e difendetele!
Questo
è il mio augurio e grazie per questa visita ad Asiago, per il vostro saluto che
mi portate.... e portate il mio saluto
alla vostra terra.
Ero un ragazzo allora, che camminava su di là
come un camoscio, ora sono un vecchio che va piano, ma io ho nel cuore le
vostre montagne.
Portateci
il mio saluto!
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