venerdì 15 aprile 2011

Settembre 1944: ATTACCO ALLA CANAVESANA



Sessanta anni fa, il 9 settembre 1944, avveniva la più efferata strage di civili compiuta durante la seconda guerra mondiale in Canavese: il mitragliamento a Bosconero di un treno della Canavesana carico di civili,
I morti furono decine, un conto esatto non venne mai effettuato. Un attacco vile, un gravissimo fatto di sangue che non trova giustificazione se non nella perversa logica di crudeltà che genera la guerra.
Negli anni successivi al conflitto, nonostante la sua gravità e l’alto costo di vite umane si stese, su questo episodio, un velo di silenzio cercando di rimuoverlo dalla memoria collettiva; non vi sono lapidi o cippi che ne ricordino la memoria, forse perché quei morti non appartenevano a nessuno. Anche gli autori della tragica incursione aerea furono in qualche modo protetti lasciando filtrare i dubbi sulla nazionalità degli aerei, mentre fu subito chiaro a chi appartenevano.
Se la storia ufficiale sembra aver dimenticato, così non è stato per gli ancora numerosi testimoni diretti e indiretti del fatto, soprattutto per quelli che ancora oggi portano sul loro corpo i segni delle ferite, che non sono nulla in confronto con quelli incisi nell’animo.
Attraverso i loro racconti si può ricostruire quella triste giornata che gettò nel lutto e nella disperazione numerose famiglie e cambiò la vita a numerosi sopravvissuti, come a Celso Mattioda di S.Anna Boschi, che all’epoca ragazzino in quello stesso giorno passò dalla gioia di un desiderato viaggio in treno alla disperazione per la sua condizione di orfano, causata dalla perdita della madre, suo unico sostegno. Questa è la sua storia.

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L’estate del 1944 fu un’estate calda per il Canavese e non solo dal punto di vista meteorologico. Svaniti i sogni di una guerra breve e vittoriosa, dissolto il nostro esercito, gli anglo-americani erano sbarcati sul nostro territorio e raggiunta la Toscana si preparavano ad ulteriori avanzate.
La guerra aveva preso vigore e si combatteva sul suolo italiano. I paesi canavesani erano sottoposti alla feroce occupazione tedesca.
In montagna il movimento partigiano era attivo e migliorava la sua organizzazione, compiendo azioni di guerriglia anche in pianura. Le sparatorie con morti e feriti erano all’ordine del giorno così come le rappresaglie nazi-fasciste.

Celso Mattioda era all’epoca un ragazzino di 12 anni, viveva a S Anna Boschi, una frazione di Castellamonte, adagiata sulle colline della Valle Sacra, con la mamma Teresa Maddio rimasta prematuramente vedova.
Nonostante la sua condizione di orfano di padre lo obbligasse ad aiutare in tutti i modi la sua mamma, Celso era un ragazzo studioso e la mamma, anche per esaudire uno degli ultimi desideri di suo padre, che voleva studiasse, lo aveva iscritto alla scuola media gestita dalle suore Giuseppine allora sfollate causa i bombardamenti a S.Anna, poco lontano da casa sua.
Rosso di capelli e pieno di lentiggini, aveva un carattere vivace e sovente veniva messo alla porta dalle sue insegnanti nonostante fosse tra i primi della classe.
Maturato dalla vita prima del tempo, aveva una grande energia e voglia di vivere che causava spesso delle gravi preoccupazione alla mamma, che riponeva in lui tutte le speranze della sua vita.
Come un anno prima, quando in occasione dell’armistizio, essendosi diffusa la speranza che la guerra fosse finita i giovani del luogo organizzarono dei balli nelle piazze e nelle cascine per festeggiare l’avvenimento e Celso si aggregò ad una di queste compagnie. Alle quattro di notte, non vedendolo rientrare, la mamma svegliò una vicina e assieme lo rintracciarono.
Quando furono a casa le botte gli fecero dimenticare presto la festa.
Le preoccupazioni della madre erano giustificate anche dal fatto che invece della pace la situazione peggiorò: i tedeschi, i partigiani, la guerra civile….e Celso che si avvicinava ad un’età che prima o poi rischiava di coinvolgerlo.
Dopo quattro anni di guerra la popolazione civile era allo stremo e i generi alimentari scarseggiavano. Riuscire a nutrirsi con 2 etti di pane razionato al giorno diventava un problema anche per loro che in qualche modo, grazie a un pezzetto di terra e qualche animale erano riusciti a sopravvivere forse meglio dei cittadini.
Mancavano i cereali, che in virtù della loro buona conservazione erano un alimento indispensabile per superare i mesi invernali.
Teresa questo lo sapeva bene e in previsione dell’inverno aveva già messo da parte in solaio un pò di meliga e grano.
In quei giorni di settembre ‘44 si sparse la voce che, nelle cascine di Volpiano si poteva trovare, “alla borsa nera”, del grano in abbondanza. Valutata l’entità della sua provvista e fatti due conti, Teresa da donna previdente, decise che qualche decina di Kg in più sarebbero stati veramente utili per affrontare con una certa tranquillità l’inverno.
Pensò subito a Celso e decise che l’avrebbe portato con se, di lasciarlo a casa non se lo sentiva e poi pensò che sarebbe stato utile per il trasporto del grano.
Quando alla sera glielo comunicò il ragazzo fece salti di gioia: era da tempo che desiderava salire sulla sbuffante vaporiera della canavesana e così il giorno dopo, 9 settembre 1944, di buonora si misero in cammino e raggiunsero la stazione di Castellamonte.
Il treno era pronto sul binario, sulla banchina e sotto la tettoia molte erano le persone in attesa della partenza. A quell’epoca le vecchie vaporiere della linea canavesana, nonostante la scarsità di carbone, carenze di carrozze e frequenti interruzioni della linea, facevano del loro meglio per garantire un minimo di servizio. Viaggiare era pericoloso, ma per molti studenti, lavoratori e sfollati era una necessità.
Celso guardò con interesse il personale della ferrovia che completava i preparativi per la partenza : i manovratori avevano già regolato gli scambi nella direzione giusta, il fuochista gettava palate di carbone nella caldaia che a lui sembrò un’enorme bocca infuocata, mentre il macchinista saliva e scendeva continuamente dalla vaporiera controllando i meccanismi e il manometro che riportava la pressione della caldaia.
Rimase estasiato a guardare la nera vaporiera che rilasciava folate di fumo dal lungo fumaiolo e ad ascoltare il suo ritmico ansimare, fino a che la madre lo strattono dicendogli che era ora di salire.
I corrieri e fattorini caricarono gli ultimi pacchi nel l’apposito vagone assieme al sacco della posta e dal suo sgabuzzino uscì il capostazione il quale, alzata la paletta con il segnale verde, emise l’atteso fischio della partenza.
Celso con la testa fuori dal finestrino osservò la locomotiva che al segnale di partenza rilasciò una nuvola di vapore e cominciò a muoversi. Finalmente viaggiava su di un treno!
Il percorso da Castellamonte a Volpiano gli parve più breve di quanto avesse immaginato; avrebbe ancora viaggiato volentieri tante erano le cose da osservare ma non doveva dimenticarsi che stava effettuando quel viaggio non per piacere ma per aiutare sua madre nella ricerca del grano.
La mattinata la trascorsero a peregrinare da una cascina all’altra alla ricerca di qualche cosa da comprare, ma non era semplice erano in molti a cercare le stesse cose e la risposta era sempre che non ne avevano o avevano già venduto. Molte erano le persone giunte per lo stesso scopo e diverse provenivano da Castellamonte.
Dopo ore di ricerca finalmente Celso e sua madre trovarono da acquistare un mezzo sacco di granoturco e caricatolo sulle spalle si diressero verso la stazione per fare ritorno a casa.
Quando giunsero alla stazione di Volpiano la trovarono particolarmente gremita.
Molte erano le persone che portavano con loro ogni tipo di bagagli, grandi borse, pacchi, sacchi, valige di cartone rinforzate da robusti spaghi. Un’umanità silenziosa e riservata che viaggiava non per piacere, ma perché costretta dalla contingenza della guerra a raggiungere le famiglie che i bombardamenti su Torino avevano disperso sul territorio o altri come Celso e sua madre scesi al piano per trovare un po di grano o per fare provviste di cibo e prodotti che non si trovavano altrove.
Erano tempi duri quelli del 1944 e il problema del cibo era la preoccupazione maggiore, insieme a quella di sopravvivere a quella maledetta guerra che non finiva mai e che ogni giorno si faceva più cruenta e sanguinosa.
Celso quel pomeriggio non pensava a queste cose, nell’irrequietezza dei suoi dodici anni viveva con eccitazione quella giornata che l’aveva portato così lontano da casa sua, dalle sue colline dove era sempre vissuto, e dai suoi amici ai quali, al ritorno, avrebbe avuto tante cose da raccontare.
Attese con impazienza il treno, il suo sguardo era laggiù, al fondo del lungo rettilineo di binari che sembravano unirsi e sfumare in una nebbiolina tremolante per il calore.
Non attese a lungo, una riga di fumo andava ingrandendosi sempre più, il treno si stava lentamente avvicinando.
La sua comparsa al fondo del rettilineo aveva creato nella stazione un grande eccitamento, persone che si chiamavano, mamme che raccomandavano ai bimbi di stare discosti dai binari e tutti che premevano verso la banchina preoccupati dell’eventualità di non poter salire.
Oltre al fumo si distingueva già chiaramente la sagoma della locomotiva, così caratteristica con i suoi due grossi oblò laterali che sembravano occhi e il lungo fumaiolo che faceva somigliare la nostra vaporiera canavesana a uno di quei treni umanizzati dei cartoni disneyani.
Celso non si perse un attimo dell’arrivo del treno e quasi non sentì la madre che gli raccomandava di essere svelto a salire perché la calca era veramente tanta.
Erano le 15.30 quando tra lo stridore dei freni e una nuvola di vapore il treno si arrestò.
La madre riuscì a salire sul primo vagone fermandosi sul terrazzino all’aperto posto all’estremità del vagone dove Celso con fatica le issò il sacco di granoturco.
Durante questa operazione la gente era salita e aveva occupato tutto il vagone, così a Celso non restò che cercare di salire nei vagoni che seguivano, mentre la madre rimase sul terrazzino, sedendosi sopra il sacco.
Con difficoltà ci riuscì e sgattaiolando in mezzo alla gente, potè guadagnarsi una posizione vicino al finestrino per godere meglio il viaggio di ritorno.
Sullo stesso treno era salita anche Alida Mattioda ,una bella ragazza sui vent’anni dello stesso paese di Celso, che si trovava a Volpiano con la cognata, la mamma e la zia. Nella confusione della partenza i parenti non erano riusciti a salire e si erano rassegnati a prendere il treno successivo.
Alida non riuscendo a trovare posto sugli stipatissimi sedili di legno rimase in piedi nel corridoio centrale.
Dopo un paio di laceranti fischi il treno si mise in movimento come per sfuggire all’assedio della folla che ancora cercava di salire e in pochi minuti lasciò la stazione di Volpiano.
Sul treno tornò la calma e il viaggio, proseguì tranquillo ritmato dallo sferragliare delle ruote sulle rotaie. Ogni tanto una folata di fumo entrava nello scompartimento attraverso i finestrini aperti, diffondendo ovunque l’acro odore del carbone.
Passata la stazione di S.Benigno arrivò quella di Bosconero. Si fermò pochi minuti poi ripartì.
Celso guardava la dolce campagna canavesana che gli sfilava davanti agli occhi, quando improvvisamente un rumore assordante e breve coprì quello del treno e davanti ai suoi occhi passò come una meteora la sagoma di un aereo.
Cercò di seguirlo con lo sguardo, ma come era apparso altrettanto velocemente scomparve dal suo campo visivo. Rimase a bocca aperta, la sorpresa lo paralizzò, mai avrebbe immaginato di vedere un aereo in volo così vicino. Nella sua mente fissò come in un fermo immagine quell’evento straordinario e riandò con la memoria a quell’attimo, cercando di coglierne i particolari, ma tutto fu così rapido che colse solo il colore chiaro, lucente ai raggi ormai obliqui del sole.
Nello scompartimento, il normale chiacchiericcio cessò. Superata la sorpresa generale, una voce gridò di stare lontano dai finestrini perché poteva essere pericoloso. Celso non capì subito le ragioni del pericolo e non si mosse, d’altra parte era quasi impossibile farlo, visto che il vagone era pieno di gente. Passò un tempo indefinibile, qualche decina di secondi, forse un paio di minuti trascorsi in un silenzio irreale. Molti avevano intuito, ma speravano di sbagliarsi , speravano che quegli aerei fossero amici e che comunque fossero già lontani alla ricerca di qualche obbiettivo militare, in fondo loro viaggiavano su un treno civile e per giunta secondario, così rimasero in silenzio, ma con l’udito teso a cogliere il caratteristico rumore di aerei in avvicinamento. Ma non ebbero il tempo, una gragnuola di colpi si abbattè sul vagone, i finestrini parvero esplodere e il soffitto si ricoprì di buchi che scaricavano schegge metalliche e scaglie di infissi che andavano a conficcarsi nelle carni dei passeggeri, ricoprendoli di sangue. Il treno frenò immediatamente per dare modo ai passeggeri di scendere e fuggire, chi potè farlo si buttò giù correndo nei prati alla ricerca di un riparo, molti feriti non ne ebbero la forza e rimasero ad urlare nello scompartimento insieme a quelli che ormai non riuscivano nemmeno più a emettere un gemito.
Celso rimase miracolosamente illeso e si ritrovò a correre per i prati , via, il più lontano possibile da quel treno maledetto. Gli aerei ritornarono ancora una, due volte scaricando le loro mitragliatrici caricate con proiettili a frammentazione che nell’impatto diffondevano micidiali schegge, sul treno e sulle persone che fuggivano.
Il treno aveva percorso poche centinaia di metri dalla stazione di Bosconero e la gente del posto aveva assistito impotente al massacro.
“A l’han mitraglià al treno”: la voce si sparse immediatamente nel paese e corsero alla stazione a cercare di prestare soccorso ai feriti.
I prati vicino al treno erano disseminati di persone ferite, ma anche di corpi orrendamente sfigurati chi era incolume vagava senza una meta, inebetito dalla paura.
Il parroco di Bosconero fu tra i primi ad accorrere, confortando i feriti e impartendo la benedizione ai morti.
Una giovane donna, la cui schiena era stata completamente svuotata, reggeva ancora sul braccio il velo, probabilmente appena ritirato da una sarta torinese, che di lì a pochi giorni avrebbe dovuto indossare per sposarsi.
Celso come si riprese dagli attimi di terrore cercò subito sua madre e si diresse verso il treno quando si senti afferrare per un braccio. Era Alida che lo riconobbe e lo fermò. - Vieni con me- gli disse,- andiamo verso la stazione, forse tua madre si è diretta là .—
Alida sapeva che non era vero, perché aveva visto poco prima la madre di Celso, seduta sul sacco di grano con la testa reclinata e una profonda ferita mortale e volle evitare al ragazzo la triste scena.
Anche lei era ferita al collo, anche se in modo superficiale: pochi millimetri e avrebbe fatto la stessa fine della donna, ma in quel momento non pensava a questo. Si era strappata un lembo della camicetta e legandoselo attorno al collo tamponò la ferita.
Riuscì a trascinare via il ragazzo anche se lui continuava a chiamare la madre credendo di riconoscerla tra le persone che girovagavano sperdute attorno al treno.
Giunti alla stazione, pregò il capostazione di avvertire la mamma rimasta a Volpiano che lei era viva e si avviarono nel centro di Bosconero, dove successivamente un camion li trasportò a Castellamonte in ospedale.
Si chiudeva così drammaticamente quella giornata che per Celso era iniziata con gioia e spensieratezza.
Il destino crudele la trasformò in tragedia, privandolo dell’affetto e della guida di sua madre, ma Celso non si arrese agli ostacoli che la vita gli parò dinanzi, finì la scuola e con l’aiuto degli anziani nonni condusse una vita dignitosa ed onesta. Oggi si gode la meritata pensione circondato dall’affetto dei suoi cari, ma il ricordo di quella tragica giornata di settembre rimarrà per sempre nel suo cuore.
Il mitragliamento del treno della canavesana che aveva colpito pesantemente due dei vagoni di testa risparmiò il locomotore, così i morti e i feriti furono caricati sul treno e il macchinista benchè ferito ad una gamba condusse il treno sino a Rivarolo, dove nel frattempo si erano organizzati i soccorsi.
Scaricati un po’ di feriti, gli altri furono inviati assieme alle salme dei caduti alla stazione di Castellamonte. Qui i feriti vennero trasportati all’ospedale utilizzando ogni mezzo compresi i carretti che servivano abitualmente per i pacchi e la posta.
I morti giunti a Castellamonte furono 17 e vennero allineati nella cappella del cimitero, i feriti 37 di cui 13 gravi. Il totale dei morti non si conobbe mai esattamente, anche perché molti dei feriti ricoverati in diversi ospedali morirono nei giorni seguenti.
Nella notte i vagoni colpiti vennero lavati con gli idranti e rattoppati alla meglio ripresero a viaggiare. C’era la guerra e altri vagoni disponibili non cen’erano più.
Il fatto di Bosconero fu ovviamente sfruttato dalla propaganda fascista.
Nei giorni seguenti fu distribuito in Canavese un volantino intitolato “Banditi dell’aria” nel quale si poneva l’accento sulla crudeltà e viltà degli anglo-americani che proditoriamente attaccavano obbiettivi civili, accusando di corresponsabilità anche il movimento partigiano che vedeva in essi dei liberatori.
Da parte sua la Resistenza avallò la poco credibile ipotesi, che gli aerei contrassegnati dagli emblemi dell’aviazione americana fossero una provocazione nazifascista fatta per gettare discredito sulle forze alleate.
Posizione comprensibile in quel particolare momento, ma per verità storica dobbiamo dire che fatti del genere, compiuti dall’aviazione anglo-americana, furono frequenti e ben documentati in quel periodo.
Abbiamo sentito il parere di Roger Jugler, appassionato esperto di aviazione militare, che grazie ai suoi studi e utilizzando i contatti con siti internet americani è riuscito a ricostruire e documentare il bombardamento di Pont Sant Martin in Valle d’Aosta avvenuto il 23 agosto 1944 che causò 130 morti, questo nella speranza di individuare la squadriglia e magari i nomi di chi effettuò l’attacco.

Scrive Jugler:
A partire dall’agosto 1944 le forze aeree americane attestate in centro Italia, effettuarono numerose incursioni nel nord ancora in mano alle forze nazifasciste
Il tipo di attacco subito dal treno della canavesana a Bosconero rientra nella classificazione che gli americani chiamavano “target of opportunity”(obbiettivi di oppurtunità,) definizione molto vaga, che consisteva nello sparare a tutto ciò che si presentava alla loro portata.
Furono attaccati treni, camion, autovetture , battelli (sul Lago Maggiore in un attacco perirono decine di persone) e persino contadini intenti ai lavori nei campi.
Il fine era quello di creare panico e scompiglio (oggi diremo terrorismo) nelle zone nemiche, per paralizzarne i trasporti e fiaccarne la resistenza.
La grande maggioranza delle missioni effettuate in nord Italia partiva dalle basi in Toscana (Grosseto - Livorno) oppure dalla Corsica. La tattica prevalente era di far partire 8 aerei che giunti sull’area interessata, nel nostro caso Torino, si dividevano a gruppi di due, i quali pattugliavano il territorio loro assegnato, seguendo il tracciato delle ferrovie o delle strade e attaccando quello che trovavano.
Al ritorno veniva steso un unico rapporto e questo rende difficile una precisa individuazione dei piloti. Alla data in questione ( 9 settembre 1944) un rapporto descrive tra l’altro, un’incursione su Torino e l’attacco a un treno, ma non specifica quale.
Solo a partire dal gennaio 1945 ogni aereo fu tenuto a redarre un singolo rapporto di missione.

Alla fine della guerra a nessuno venne, ovviamente, in mente di indagare su queste missioni, che lasciando ai piloti grandi margini di discrezionalità potevano anche aver compiuto degli abusi.
Il grande contributo dato dagli anglo-americani alla nostra ritrovata libertà non poteva e non può certo essere messo in discussione da questi pur gravi episodi, ma i morti del treno canavesano, come quelli di tanti altri episodi che oggi classificheremo come “danni collaterali” della guerra non vanno dimenticati, ma devono indurci a riflettere su come nelle guerre, quelle di ieri, ma ancor più in quelle di oggi, sono i civili a pagare il prezzo maggiore.
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Bibliografia: -Banditi dell’aria – Gianni Chiarenza Z.O. 1944

-Cinquan’anni fa – Comitato Cinquantenario Liberazione

Città di Castellamonte 1995

-Il prezzo della libertà. T.De Mayo V.Viano

- Gazzetta del popolo- 11.09.1944

- La Nostra storia.. R.Lucci - Comune Bosconero


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Caratteristiche tecniche del P 47-D Thunderbolt


Motore Pratt and Whitney 2300 hp a cilindi radiali

Velocità massima 690 Km/ora

Raggio di azione da 1600 a 3000 Km

Altitudine max 12.88 m

Dimensioni
Apertura alare 12 m 40 cm

lunghezza 11 m 03 cm

altezza 4 m 30 cm

peso vuoto 4583 Kg

pieno carico 8800 Kg



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giovedì 14 aprile 2011

Rivarotta e il suo guado




Ai nostri giorni, quando per qualsiasi esigenza dobbiamo recarci nei paesi vicini ci bastano pochi minuti per raggiungerli.
Oggi possiamo abitare per esempio a Castellamonte , lavorare a Rivarolo, recarsi al cinema a Cuorgnè o trovare un amico a Valperga nella stessa giornata. Questa abitudine ormai diffusa ci fa sentire il circondario vicino come se fosse il nostro paese.
Anche i grossi centri come Ivrea e Torino sono facilmente raggiungibili. Certo come uomini moderni e frenetici abbiamo i nostri problemi di trasporto e le nostre piccole angosce: il traffico, i pericoli della strada,ecc
Problemi che sono però enormemente piccoli in confronto a quelli che dovevano affrontare i nostri avi quando si mettevano in cammino.
Se fossimo dotati della facoltà di viaggiare a ritroso nel tempo, in pieno 800 troveremmo carri , birocci, cavalli, muli e soprattutto tanta gente a piedi. Le strade le troveremmo rimpicciolite, polverose d’estate e fangose e piene di “ruere” nella brutta stagione. Molte strade non le ritroveremmo più, ma nonostante ciò, il tracciato delle strade che oggi percorriamo abitualmente ,ad eccezione di quelle recentissime, sarebbe ancora riconoscibile.
Infatti esso risale agli inizi del XIX secolo, quando dopo l’ondata innovatrice del periodo Napoleonico e dopo la restaurazione lo stato Sabaudo si convinse della grande importanza che avevano le comunicazioni in uno stato moderno e fece notevoli sforzi per dotarsi di una rete stradale adeguata ai tempi.
Ancora un balzo nel tempo ed a metà settecento avremo già dei seri problemi a riconoscere le strade ed a raggiungere i centri vicini. Infatti oltre ai problemi di percorribilità delle strade, molte delle quali ridotte a mulattiere, ci troveremmo di fronte ad un problema, di cui oggi quando viaggiamo quasi non ci rendiamo conto: il superamento dei corsi d’acqua e soprattutto dell’Orco il cui percorso taglia verticalmente in due il Canavese.
Il Prato nel suo rapporto sulle condizioni dello Stato Sardo afferma che a metà ‘700 non vi era un solo ponte di pietra che attraversasse l’Orco essendo quello di Cuorgnè crollato nella piena del 1705.
L’uomo doveva guadare il fiume sottostando ai capricci delle sue acque e conseguentemente i commerci, l’economia, e anche le guerre ne erano influenzate.
In certi periodi dell’anno la potenza delle acque impediva ogni collegamento e l’isolamento poteva durare anche dei mesi. In questi periodi i prezzi di certi generi alimentari potevano variare anche notevolmente tra i paesi delle sponde opposte.
Il guado che offriva più praticabilità nelle stagioni e nel corso degli anni era, sino a metà del secolo scorso un punto strategico economico e militare e come tale andava attrezzato e difeso.
Importanti guadi attrezzati con “puntije”di legno lungo il corso dell’Orco li troviamo a Brandizzo dove scorreva l’importante via di comunicazione tra il Ducato Sabaudo e la Lombardia, tra S. Benigno e Volpiano, a Feletto dove ransitano nobili e duchi in direzione di Agliè, a Cuorgnè dove il vecchio ponte è rabberciato alla meglio con assi di legno che vengono travolti ad ogni piena e a Rivarotta.
In numerosi documenti e carte antiche questi punti di attraversamento sono menzionati come “porti” e si fa riferimento a “barche”. Non dobbiamo però aspettarci un significato letterale di questi termini anche se nel castello di Malgrà a Rivarolo un affresco (peraltro quasi completamente rifatto ad inizio secolo) rappresenta un classico barcaiolo con tanto di remi intento ad attraversare l’Orco, metodo questo assai improbabile dato il carattere torrentizio dello stesso.
Probabilmente con il termine “barche” sono intesi dei cassoni galleggianti, ancorati alle sponde con robuste funi in modo da costituire una sorta di traghetto. Questo poi veniva ritirato quando l’Orco minacciava una piena, in quanto alla furia delle acque non vi era, “traghetto” o “puntija” che reggesse e non restava che attendere che le acque si placassero.
Sull’ineluttabilità di dover fare i conti con i capricci del fiume nei programmati spostamenti nacque anche il motto piemontese “Fè ‘na gita a Flet” usato per descrivere una perdita di tempo, e che trae origine da una gita al castello ducale di Agliè della corte interrotta appunto a Feletto causa l’impossibilità di guadare l’Orco.
Per non allargare troppo il discorso che ci condurrebbe lontano ci limitiamo a considerare il guado di Rivarotta che direttamente interessa il territorio altocanavesano e come vedremo in seguito era uno dei guadi più antichi e ricchi di storia.
Il primo documento in cui esso è citato è datato 31 dicembre 1177 e riguarda la donazione che Guido conte del Canavese fà al monastero di Rivarotta dei diritti derivanti dal "porto" sull'Orco.
Al guado di Rivarotta, Castellamonte era collegato tramite la via chiamata anticamente via“Merchanda”, che aveva una larghezza di 6 piedi liprandi (poco più di 3 m).
Lasciato l’abitato la strada seguiva e segue ancora, un breve tratto dell’odierna via per Cuorgnè sino alla cappella di S.Sebastiano dove attualmente si trova il cimitero e raggiunta la borgata della Trinità si dirigeva al guado.
In questo luogo l’Orco sino alla recente alluvione si divideva in due o tre bracci rendendo più facile il superamento. Qui, secondo la portata delle acque, avveniva il passaggio, effettuato sulle “Puntije”: ponticelli di legno di varie fogge e dimensioni che variavano con il variare del letto del torrente e con lo scorrere dei secoli. Potevano essere poche tavole inchiodate su due tronchi oppure opere più complesse che collegavano le due sponde sorrette da pali infissi nel letto del torrente.
Addetti alla loro costruzione e manutenzione erano quasi sempre gli abitanti di Rivarotta, che fornivano ogni anno, anche libre quatto di canapa, che era impiegata per la costruzione delle funi, e avendo in cambio l’esonero da ogni pagamento per l’attraversamento.
I viandanti che percorrevano la via “Merchanda” giunti alla borgata di Rivarotta avevano diverse scelte:
continuando per Salassa, Oglianico, Favria, Front, Borgaro potevano raggiungere Torino o l’importante Val di Susa che conduceva in Francia ,oppure appena passato l’Orco girare a sinistra verso Vesignano, Rivarolo, o a destra risalendo l’argine sino a raggiungere Cuorgnè.
Non ci deve stupire il fatto che i castellamontesi preferissero questa strada per andare a Cuorgnè, in quanto sulla sponda sinistra si raggiungeva comodamente solo Spineto, dopo di che la strada si trasformava in una ripida mulattiera che si inerpicava sui rilievi collinari di località Piova le cui rocce strapiombavano nell’Orco e solo nel secolo scorso verrà aperta la strada che costeggia il torrente.
Bisogna anche ricordare che il vecchio ponte di Cuorgnè era stato costruito non per collegare Castellamonte, e nemmeno Pont in quanto quest’ultimo si raggiungeva dalla sponda destra tramite l’antichissima strada di Campore ma bensì i paesi della valle Sacra.

Riguardo il ponte di Cuorgnè sorsero numerose liti tra questo comune e Castellamonte.
Alla metà del ‘700 dopo decenni dalla parziale distruzione dell’antico ponte il comune di Cuorgnè volle ricostruirne in muratura la parte mancante, ma Castellamonte cercò di sottrarsi dal contribuire, anche perché il ponte, rendeva il mercato di Cuorgnè privilegiato rispetto a quello di Castellamonte.

Gli ordinati comunali del tempo confermano quanto sopra e affermano che la comunità di Castellamonte preferiva servirsi del guado di Rivarotta per recarsi sull’altra sponda.
Per andare a Torino, affermano che la strada per il guado di Rivarotta è preferita dai pedoni e cavallanti mentre per carrozze e carri si percorre la sinistra dell’Orco via Ozegna., Foglizzo, S.Benigno. Brandizzo .
Un antico documento del 1686 ci informa che al guado vi era anche una barca per il transito ed il barcaiolo pagava annualmente, per il diritto, una determinata somma, metà al Prevosto, metà al consortile dei conti di Valperga.
Sulla strada che conduceva al guado dell’Orco non transitava solo il traffico locale, essa era un importante segmento di una via di comunicazione che collegava l’Eporediese con Avigliana, porta daziaria per la Val di Susa e quindi con la Francia. Un altro documento dell’Archivio comunale di Cuorgne datato 13 aprile 1431 afferma che un certo Domenico Botta era stato esattore del “pedaggio”, al guado di Rivarotta, sulle merci portate dai mercanti “qui veniunt de Yporegia et vadunt Aduillaniam” (che vengono da Ivrea diretti ad Avigliana.
Proprio per il passaggio di questi commercianti che trasportavano merci pregiate( stoffe, spezie, armi ecc.) il nome di “merchanda” era più che mai appropriato.

Nel 1300 i Signori di Valperga tengono saldamente in mano Rivarotta e se ne servono come base contro Castellamonte, costringendo i conti S.Martino a costruire delle piccole opere fortificate per difendere il guado.
Sulla via “Merchanda” alle difficoltà viarie di sempre i secoli bui del medioevo ne aggiungono altre. Le continue lotte fratricide fra S.Martino e i Valperga renderanno la via di transito sempre più spesso percorsa dalle soldatesche dei due schieramenti che si recano a seminare lutti e rovine nelle altrui terre.
A questo flagello si aggiunge quello del brigantaggio: contrabbandieri, grassatori, rapinatori , berrovieri ( barivel) soldati mercenari rimasti senza ingaggio e ogni sorta di derelitti umani infestano le vie di comunicazione.
A poco servono i provvedimenti per combattere il fenomeno: taglio della vegetazione per la larghezza di vari metri dal bordo della strada per prevenire imboscate e esposizione di membra dei banditi catturati appesi agli alberi.
Al viaggiatore non rimaneva che percorrere la strada organizzato in piccoli gruppi e soprattutto affidare la propria anima a Dio e se il viaggio era molto lungo fare testamento.
Ma la strada era percorsa anche da uomini animati da una fede incrollabile: i pellegrini, che indossato un saio di lana e appoggiati al bordone, un lungo bastone ricurvo, incuranti dei pericoli testimoniavano la loro fede con il cammino.
La posizione strategica di Rivarotta rispetto al guado favorì anche il sorgere di importanti istituzioni religiose, che si occuparono dello sviluppo materiale e religioso delle popolazioni e dell’assistenza ai viandanti.

Nel Liber Decimarum del 1368-70 le alte contribuzioni a titolo papale che la chiesa di S. Maria Maddalena di Rivarotta e il monastero retto dai monaci benedettini pagavano, sono equiparate a quella di importanti istituzioni religiose dell’epoca come l’abbazia della Frutuaria a S.Benigno, il capitolato della diocesi e del monastero di S.Stefano entrambi di Ivrea.
Questo conferma l’importanza del sito e della sua giurisdizione sulle terre, che si estendono anche sull’altra sponda dell’Orco.
Un antico documento del 21 aprile 1221, riportato dal Bertotti nei “Documenti di storia Canavesana “ riferisce che davanti al notaio Oberto, il Prevosto di Rivarotta Robaldo investiva a Giovanni Realdo, Giovanni Cognato, Pietro Rosso e Guidone Mazoco tutti di Castellamonte alcuni terreni (gorreto, clapeto et gerbido) al di là del fiume Orco in territorio di Castellamonte.

Il contratto prevedeva per il convento un quarto del fieno e che nessuno poteva tagliare la sua parte, pena di perderne il diritto, prima che il prevosto avesse controllato e tagliato la sua.
Ma nel caso una piena dell’Orco avesse impedito al prevosto di andare sull’altra riva la sua parte doveva essere tagliata e riposta sotto un tetto in attesa che placate le acque potesse venire a ritirarla.
Un balzo nel tempo e siamo a cavallo del primo millennio. Esso ci conduce ai confini della storia documentata, ed all’origine stessa del Canavese.

Rivarotta (Rivaruptam) appare accanto ad altri toponimi lungo il corso dell’Orco.

Di questi molti non se ne conosce l’origine e l’esatta ubicazione come la leggendaria Canava o Canaba che compare in diplomi imperiali sin dal 900 d.C. e che dette origine a quella “cortem Canavam” da cui pare originare il nome Canavese.
Il noto storico di inizio settecento J.Durandi analizzando un diploma di Ottone III dell’anno 1000 scrisse:” Sopra Rivarotta o li presso, devono ricercarsi Canava e più in là Rordilitegna: quest’altra probabilmente la Corgnate”(Cuorgnè di oggi ).
Canava compare ancora fin verso il 1030-1050 poi scompare, probabilmente distrutta da un’eccezionale piena dell’Orco forse causata dallo svuotamento di un lago alpino formatosi da una frana che sbarrò il corso dell’Orco.

Lo storico Pagliotti colloca la distruzione di Canava appunto all’inizio del secolo XI . L’Orco “....si riversò su tutta la vetusta Corte Canava , lasciando un piccolo rimasuglio di abitazioni che furono poi totalmente distrutte in altra piena del 1378...
Anche sul territorio di Castellamonte esistono toponimi ormai scomparsi o di difficile identificazione, ad esempio Montagnacco che si trovava nei pressi del guado per Rivarotta.
Esso potrebbe essere individuato nelle attuali borgate della Trinità o di S.Antonino, ma il Giorda che ha potuto consultare i documenti dell’archivio comunale in tempi i quali questi erano più completi e certamente più accessibili parla di Montagnacco come di un luogo diverso, ma sempre vicino al guado.

Il canonico G.Saroglia in “Eporedia Sacra” Ivrea 1887 pag. 55 afferma che a Montagnacco presso l’Orco vi era l’originaria chiesa di S.Pietro già con titolo di parrocchiale la quale unendosi con quella di S.Paolo presente nel borgo diede vita alla parrocchia dei SS.Pietro e Paolo.
L’ipotesi non trova d’accordo M.Giorda che nella sua Storia di Castellamonte afferma che nel secolo XIV, Montagnacco aveva una chiesa dedicata a S.Quirico e non fu, almeno nel periodo considerato, un centro abitato di una certa importanza.

Certo è che Montagnacco (Montaniacus) insieme a Rubelliascus, Aumiacus, Calerianus sono toponimi romani individuati sul territorio Castellamontese a cui potrebbe risultare altrettanti nuclei abitati in epoca romana e quindi precedenti alla fondazione stessa del concentrico.
Come per la leggendaria Canava, anche Montagnacco fu distrutta dalla stessa piena, che così tanto spaventòi canavesani e li indusse a ritirarsi verso luoghi più sicuri?
Magari verso Revigliasco e Pracarano, che finirono per ingrossarsi costituendo il concentrico di Castellamonte?
Un ultimo balzo e siamo in epoca Romana. La medioevale via “Merchanda” che conduce al guado era una delle vie che collegavano Eporedia con il territorio fortemente romanizzato di Salassa-S.Ponso-Augusta Taurinorum e i valichi della Val di Susa.
Numerosi reperti storici del periodo sono emersi lungo tutta la direttrice e sono ancora riscontrabili le tracce della centuriazione romana sui terreni.
Il nostro viaggio a ritroso nel tempo termina qui, dove le conoscenze umane diventano evanescenti sino a scomparire del tutto.
A noi rimane la consapevolezza che sulla strada del guado dell’Orco, come in tutte le strade, in quei pochi metri di larghezza, è transitata la nostra storia attraverso i secoli, silenziosamente e senza quasi lasciare traccia.

























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mercoledì 13 aprile 2011

Un treno chiamato littorina

Una storica automotrice della ferrovia canavesana destinata a scomparire, sostituita dai moderni treni elettrici.




Con il crollo del regime fascista, tutto ciò che ricordava agli italiani il ventennio di dittatura, venne rimosso: le statue, e gli emblemi distrutti, le scritte sui muri cancellate, anche certe parole e frasi entrate nel lessico comune non più pronunciate e a poco a poco dimenticate. Pochissime sono sopravvissute sino ai nostri giorni.

Una di queste è certamente “Littorina” che in Canavese è sinonimo di treno.

Se nella prima metà del novecento “prendere la Canavesana” significava viaggiare sulla locomotiva a vapore, successivamente e ancora ai nostri giorni per i canavesani doc “prendere la Littorina” significa viaggiare in treno.

Sicuramente se chiedessimo ai giovanissimi perchè si chiama Littorina, pochi saprebbero rispondere che il termine deriva da (fascio) littorio il simbolo del fascismo, usato in maniera traslata per indicare un tipo di moderno locomotore entrato in servizio nel periodo (1935) e al quale si voleva sottolinearne il presunto merito del regime nella realizzazione.

Quasi nessuno poi è a conoscenza della curiosa storia delle prime Littorine entrate in servizio sulla ferrovia canavesana nel 1943 e che cercheremo brevemente di ricordare.
La realizzazione delle automotrici termiche (motori diesel) denominate Littorine rispondeva alla necessità di avere un mezzo di trasporto ferroviario leggero, veloce, versatile in grado di aumentare la velocità di esercizio e ridurre i costi, soprattutto delle linee ferroviarie secondarie che cominciavano a risentire della concorrenza dovuta allo sviluppo dell’automobile e del trasporto su gomma.

La leggerezza era ottenuta da una struttura realizzata con largo uso di alluminio e leghe leggere in grado di ospitare, nelle più grandi, fino a 88 posti a sedere la quale poggiava su solo quattro coppie di ruote ferroviarie.

I due motori Diesel poggianti sui carrelli delle ruote riducevano al minimo le vibrazioni e soprattutto non necessitando di complicati meccanismi di trasmissione del moto si otteneva una notevole diminuzione di peso e quindi un miglioramento del rapporto peso , potenza, velocità.

Dai documenti tecnici dell’epoca si legge che la Littorina più grande (88 posti) corrispondeva in peso a soli 250 Kg per posto offerto; un treno normale a vapore con relativa macchina superava i 2000 Kg.

In merito al consumo di combustibile un treno rapido a vapore richiedeva circa 22 Kg di carbone per Km, la Littorina di grande portata consumava 600 grammi di gasolio.

Notevole anche il risparmio dovuto alla riduzione del personale: da quattro necessari al treno a due per la Littorina.

Dal 1935 al 1940 entrarono in servizio sulla rete nazionale tre tipi di Littorine da 88 posti, 60 posti e la più piccola 48 posti.

La più potenti sviluppavano nelle linee adatte la velocità di 130 Km orari, agevolate anche dal profilo esterno che portava ad una notevole riduzione alla resistenza dell’aria soprattutto a confronto con i treni dell’epoca.

Dotate di doppi comandi simmetrici poteva essere condotta in entrambi le direzioni, evitando così la necessità di essere rigirata sulla piattaforma ad ogni capolinea.

Tutto ciò portava ad una notevole convenienza economica: la Littorina costava in media due lire al Km; un treno per linea secondaria 5-6 lire a Km.


Queste le caratteristiche generali delle Littorine diffuse in tutta Italia, ma con netta prevalenza in settentrione.

Le Ferrovie Torino Nord, questo era il nome della società che all’epoca gestiva la linea ferroviaria canavesana affittò dal 1943 al 1945 dalle Ferrovie Statali ben sei Littorine ALn 556, ma si videro circolare poco in quanto gli eventi bellici e la conseguente penuria di carburante lo impedì. Alla fine delle ostilità erano tutte accantonate alla stazione di Rivarolo e vennero successivamente ritirate dalle FF.SS.

Le Littorine che iniziarono a circolare regolarmente in Canavese nel dopoguerra erano di un tipo particolare e la loro storia un po’ curiosa è dovuta al fatto che erano state costruite per svolgere un servizio diverso da quello che poi finirono per svolgere.

Costruite dalla Fiat con sigla ALn 40 sul finire degli anni ’30 sull’onda di un nascente turismo di èlite, questi mezzi dovevano svolgere un servizio di collegamento rapido diurno di classe superiore e essere impiegate in zone di alto interesse turistico.

I mezzi erano dotati di dispensa-cucina, buone rifiniture interne e i pasti erano serviti su vassoio al posto. Questo allestimento riduceva a 40 i posti disponibili.

In questa limitata capienza consisteva il difetto principale del mezzo poiché, se il servizio risultava gradito all’utenza e l’affluenza cresceva era necessario raddoppiare la composizione anche per pochi posti e la mancanza di intercomunicazione tra i due mezzi impediva l’utilizzo di una sola cucina aumentando il personale. Si comprende come i costi salissero in maniera spropositata.

Alla fine della guerra, con un Italia alle prese con una difficile ricostruzione, questo tipo di servizio se non tramontato era perlomeno inattuale così le FF.SS.decisero di alienare i mezzi superstiti alle vicende belliche.

La direzione della Ferrovia Canavesana riuscì ad accapparrarsi cinque di queste motrici accantonate nelle Officine FS di Vicenza e che risultavano in soddisfacenti condizioni.

Affidate per la trasformazione all’Officina Magliola di Santhià furono abolite cucina e dispensa e attrezzate con sedili di legno con disposizione 3+2 tale da ottenere 70 posti ripartiti in 3 comparti. Due di queste originariamente disponevano di 17 posti in classe superiore posti in uno dei comparti di estremità.

Vennero modificati anche rapporti privilegiando le doti di avviamento a leggero scapito della velocità che risultava di 90 km ora, più che sufficiente per le caratteristiche della linea.

La doppia coloritura venne attuata dipingendo la parte inferiore, a partire dai finestrini, nel classico colore castano mentre il tetto era grigio opaco, con le scritte ( FTN AUTO 40.001 – 5 ) in giallo oro con filettature rosse.

Le generazioni più anziane ricorderanno certamente l’interesse con il quale vennero accolte dall’utente canavesano in quanto rappresentavano una modernità in confronto con la vecchia vaporiera, anche se la capienza era limitata rispetto il treno tradizionale.

Le vecchie Littorine svolsero tutto sommato un servizio soddisfacente e continuarono il servizio ( ridipinte di giallo-rosso) anche dopo il subentro alla direzione della ferrovia canavesana della SATTI avvenuto nel 1959.

Nel 1962 ne venne demolita una e utilizzata parzialmente come ricambi, le altre pur provate da un lungo esercizio continuarono a viaggiare ancora parecchi anni dopo l’introduzione delle nuove automotrici Fiat ALn 668 D che ancora svolgono il servizio.

Al di là delle sigle tecniche, le vecchie Littorine tramandarono alle nuove il loro nome e per tutti i viaggiatori i moderni mezzi furono sempre chiamati Littorine.

Da alcuni anni la Ferrovia Canavesana è impegnata in un notevole sforzo economico di ammodernamento, dopo decenni di aspettative la linea è stata elettrificata e rimodernata, sono già in servizio nuovi treni elettrici e nel 2006 entreranno in servizio quelli nuovissimi a due piani, ma c’è da scommettere che per molti canavesani quando si recheranno alla stazione lo faranno per…andare a prendere la Littorina