martedì 8 dicembre 2015

Mario Rigoni Stern RICORDI CANAVESANI

In occasione dell’incontro con Mario Rigoni Stern, avvenuto in Asiago il 30 ottobre 1999, filmai gli incontri e i racconti da lui fatti sul filo della memoria, alcuni dei quali stimolati dalle nostre domande.
Questo per conservarne una memoria  audiovisiva.
Ciò ha permesso di trascrivere fedelmente ciò che ci andava raccontando.
La parte di seguito riportata è quella che più riguarda Castellamonte,  in parte già citata dal Rigoni Stern in alcuni suoi libri e articoli.
Il mio intervento è stato solo quello di radunarli e di riordinarli secondo il loro sviluppo cronologico. Ne è venuto fuori un piccolo racconto che spero i nostri concittadini apprezzeranno.
                                                                                                                         Emilio  Champagne

Mario Rigoni  Stern                 RICORDI      CANAVESANI           


Il mio rapporto con la vostra terra va molto indietro nel tempo,  a quando nel 1938 mi arruolai volontario alla scuola militare di alpinismo  di Aosta  per diventare maestro di sci e guida alpina.
Avevo poco più di 17 anni e fu un’esperienza importante che mi portò a conoscere ed amare le vostre montagne. Ricordo la prima ascensione invernale del Gran Paradiso nel febbraio del ‘39 effettuata con i miei commilitoni con gli sci lo zaino affardellato e il fucile mitragliatore a tracolla. Poi tante cime  e passi  nella  alta valle dell’Orco e Valle d’Aosta.
Fu proprio lì che nel settembre del 1939 fui dal Comando inviato come istruttore  presso il 6° alpini  stanziato in Canavese  con sede a Castellamonte.
Al mio arrivo, dopo stagioni e inverni passati in alta quota, i colli di Castellamonte e del Canavese mi sembravano una solatia riviera.
A Castellamonte eravamo accasermati in un edificio che era stato utilizzato da un pastificio per far seccare la pasta; era posto dietro  il ristorante “Tre Re”, vicino ad un rivo.
Il quel luogo la disciplina della caserma era dimenticata, la nostra maniera di vivere aveva un aspetto paesano più che militare. Ricordo però che a Castellamonte  il vitto che ci passava l’esercito era veramente poco, non  so  se ciò era dovuto al gran numero di soldati,   a inefficienza o cosa altro, ma si faceva la fame  e ci si arrangiava  a raccogliere castagne vecchie  su per le colline  o quando cominciava a spuntare il radicchio selvatico, (la cicoria), la raccoglievamo  per fare delle insalate con cipolle.
 A parte le manovre tattiche che facevamo una volta alla settimana, persino la marcia del venerdì e le esercitazioni in roccia che facevamo in una cava abbandonata di Vistrorio avevano assunto un aspetto famigliare, perché durante il tragitto si incontrava sempre gente che ci salutava cordialmente e nella palestra di roccia ci facevano visita i contadini che sospendevano di legare le viti per vedere e commentare le nostre discese  a corda doppia.
La marcia del venerdì non era la fatidica e faticosa camminata con lo zaino affardellato di ogni cosa; il nostro capitano era un richiamato, un tipo un po’ “matto” e soprattutto non pignolo da controllare il peso dello zaino a lui bastava l’apparenza. Quando ci guidava nelle marce su per le vostre colline dalle strade tortuose camminava sempre davanti con un passo velocissimo, mentre noi andavamo ad un’andatura normale. Ogni tanto si voltava e non trovando il reparto  si sedeva e aspettava poi riprendeva spedito e lo si ritrovava  più avant,  magari appoggiato ad un palo della vigna che parlava con una contadina intenta nei lavori.
Quando si trovava un’osteria entravamo, noi  avevamo pochi soldi e allora lui diceva “se un alpino  paga un bicchiere  di vino, il comandante ne offre 2 litri” e ci offriva da bere.

Un giorno venendo giù da Cuorgnè sullo stradone , poco prima di Castellamonte trovammo per strada degli allievi dell’accademia ...penso di Pinerolo. Quando questi videro  il nostro reparto arrivare, come da dovere si schierarono sul present-arm e noi sfilammo davanti loro sotto una pioggia battente.
Ricevuti gli onori, il gaio comandante ordinò l’alt e zaino a terra ; ci fece spogliare a torso nudo e sempre sotto la pioggia scrosciante, ricaricare lo zaino in spalla, dietrofront e risfilare davanti agli allievi allibiti, per avere ancora gli onori. Poi arrivati a Castellamonte offrì di tasca sua nuovamente del vino a tutti.
Ogni giorno c’era un episodio buffo o allegro  o nelle osterie o negli accantonamenti o sui balli a palchetto; tutto questo era forse dovuto alla nostra inconscia giovinezza che viveva l’ultima primavera di pace prima dell’orrendo massacro della guerra.

A maggio del 1940 ricevetti l’ordine di andare a Campiglia in Val Soana per fare l’istruttore di roccia. Ebbene vi dico, io ho avuto molti momenti felici nella mia vita, ma forse quei giorni passati a Campiglia sono stati i più belli.
Lì,  il pane arrivava da Valprato, il nostro mulo andava giù a prenderlo, era un pane fragrante, gustoso, a forma di micche basse, ....un pane che si scioglieva nella bocca ed era anche abbondante: un Kg a testa.
A Campiglia gli uomini erano pochi , erano a  militare o a lavorare, erano rimasti le donne, il parroco , due guardie parco e  molti bambini.
Alla sera ci radunavamo nella piazzetta del monumento e noi con le corde da roccia facevamo giocare i bambini, poi il parroco suonava le campane e via tutti a recitare il rosario e poi usciti dalla chiesa tutti in osteria e in osteria alla domenica veniva Giuvanindla fisa . Era  già anziano e bisognava che uno di noi andasse giù a Pont per portargli su la fisarmonica.
Giuvanin suonava e noi ballavamo. Io non ero un gran ballerino e con gli scarponi chiodati ho levato un’unghia alla maestrina del paese. Potete immaginare come fui mortificato e non ballai più. Il mio compito fu allora quello di procurare pane e formaggio e versare da bere a Giuvanin ‘dla fisa  che suonava.
Mi accorsi però che qualcosa non andava: gli riempivo il bicchiere e dopo un attimo era vuoto, lo riempivo e lo ritrovavo immediatamente vuoto. Allora lo tenni d’occhio e vidi  che Giuvanin ‘dla fisa  sotto la giacca teneva una bottiglia con un piccolo imbuto, beveva metà bicchiere e non visto, l’altra metà  la versava nella bottiglia,  per farsi la scorta a casa.

Quando ero libero dal corso di roccia andavo su al Pian della Azaria , per me quel luogo è sempre stato il più bello del mondo: i prati fioriti, il torrente  ricco di trote e i camosci  che avevano da poco partorito  con  i piccoli che scivolavano sulle chiazze di neve dei pendii... e poi c’era la maestrina..... un luogo bellissimo tanto è vero che quando mi trovavo prigioniero in Germania o nelle montagne dell’Albania o nella steppa Russa per consolarmi e per cambiare dalla mia mente il paesaggio pensavo al pian della Azaria.
Anche durante la ritirata di Russia nei momenti di maggior sconforto pensavo che lassù in Val Soana c’era il pian dell’Azaria che rappresentava per me un luogo della memoria, un vero paradiso terrestre.
All’ora avevo 18 anni, ero innamorato, il paesaggio così bello e facevo roccia con i miei amici.....ero veramente felice.
Andavamo a S. Besso e il grande sasso al quale è addossata la chiesa era la nostra palestra. Il nostro gioco era arrampicarsi sino in cima dove c’è la cappelletta.

Ricordando questo però ricordo anche tanti compagni che non sono più tornati a casa: a questo corso di rocciatori alpini eravamo una sessantina. Tra l’Albania, la Russia e la prigionia siamo ritornati vivi in tre.
Il primo a morire fu già lì a Campiglia, si chiamava Paglia, ritornando da S.Besso scivolava allegramente sull’erba, cantava, ma era troppo felice e non si accorse che c’era un dirupo, non si fermò più e si sfracellò.
Lo portammo nella chiesa di Campiglia e lo coprimmo di fiori, tutti venivano a trovarlo e noi lo vegliammo sino a quando arrivarono i genitori e lo portarono al paese.

Uno di quelli che sopravvissero lo incontrai durante la ritirata di Russia, era finito in un altro battaglione ed era tempo che non lo vedevo  e un giorno camminando sulla neve dopo la battaglia di Nikholaevka mi sento chiamare; era lui, uno dei ragazzi  con cui arrampicavo a S. Besso e insieme  ci salvammo.
Molti anni dopo la guerra,  scrissi un articolo per “La Stampa” ricordando il Canavese  e in seguito ricevetti una lettera: era la maestrina di Campiglia, a cui avevo levato un unghia al ballo e  diceva: ... Sig.Rigoni, lei forse non si ricorda, ma ero io la maestrina,  mi ricordo di voi, di quanto bene ci volevamo, di quei giorni felici.....
Certo, ricordo anch’io quei giorni felici, però giorni felici prima della bufera.
Capita ogni tanto di avere uno sprazzo di felicità prima della tragedia.....ma poi venne la tragedia.
Nei primissimi giorni di giugno del 1940 la guerra con la Francia era ormai nell’aria e ricevemmo l’ordine di scendere a Castellamonte.
Passarono pochi giorni  e arrivò un telegramma che ci ordinò di partire per la Valle di Aosta.
Gli ultimi ricordi di Castellamonte furono le tiepide  serate dei primi di giugno, piene di rondini che volavano attorno alla chiesa e alla sua rotonda...non ne avevo mai viste tante.
Il giorno della partenza lasciai le mie cose e l’indirizzo  ad una signora che abitava lì vicino al ponticello sul rivo, e lei me le inviò a casa, con dentro al pacco anche le poche lire che le avevo lasciato per le spese postali.
Venne la partenza  e zaino in spalla, a piedi, abbiamo percorso la strada verso Ivrea con le ragazze che ci accompagnavano lungo la strada piangendo e gettandoci i fiori.
Ricordo che attraversammo Ivrea e poi su in Val di Aosta.
Eravamo accampati in un bosco di Aymavilles quando fu dichiarata la guerra.
Era il 10 giugno del 1940, ricordo che giocavamo alla morra quando un alpino che era andato a comprare due gavette di vino ritornò e disse: Mussolini ha dichiarato la guerra, per l’Italia gridano tutti come matti”
Tra noi venne un gran silenzio e venne anche un sergente e un sottotenente, tutti e due poi caduti in Russia e dissero “Spegnete il fuoco, pisciateci sopra e state zitti: siamo in guerra.”  
Ma state tranquilli che fra noi lassù nessuno gridava.


Da quel giorno iniziarono 5 anni di tragedieDopo la primavera canavesana  vennero le notti di veglia sui desolati monti dell’Albania e il parlare sussurrato accanto al fuoco rievocava i paesi, le ragazze, le osterie e il ricordo allontanava la miseria di quella realtà.
E in Russia quando un compagno riceveva una lettera da Castellamonte o da Rueglio, o da Valperga era come se un soffio d’amore ci portasse in quella terra e volevamo sapere le novità, come se quelli fossero i nostri paesi.
Forse molti compagni  sono morti in quelle bufere con l’immagine  di una ragazza, di un festoso sabato, di una stradina tra le vigne, di una bottiglia di vino.
E anche nelle baracche i sopravvissuti a quegli inverni, rievocavano le calde stalle ospitali del Canavese e i tetti delle cascine sparse dove i contadini in cambio di qualche nostro servizio campagnolo,  offrivano polenta e tomini al nostro giovane appetito.

Dopo 42 anni  ho voluto tornare in Canavese . Parlando con la gente ho potuto capire quanto vivo ancora è il nostro ricordo.
Ma a Campiglia Val Soana, non c’è più la maestrina, non c’è più la scuola, non c’è il parroco e  sono rimasti davvero in pochi.
Sono arrivato a Castellamonte e sono andato a mangiare ai “ Tre Re” dove una volta ci andava a mangiare il Colonnello e adesso ci andavo io.
Domandai al figlio del vecchio proprietario che conoscevo, se esisteva  ancora il vecchio pastificio dove eravamo accantonati; mi disse di sì e gentilmente mi accompagnò.
Passato il ponticello sul rivo mi ritrovai nel cortile del rancio e dell’adunata.
Volli entrare , in quelle camerate tutti avevano lasciato un pensiero, uno scritto, un nome, un cuore trafitto, cose del genere.
Sono entrato nell’edificio, ma i muri erano stati imbiancati da poco, più nessun nome, nessuna frase si poteva leggere; ma in quel momento  ho ritrovato i visi, i nomi e i ricordi; come quello di un alpino  che una domenica, essendo di corvè, venne da me, che quel giorno ero caporale di giornata, dicendomi che aveva un appuntamento con una ragazza di Baldissero e che se avesse lavato le marmitte, pulito il cortile e spaccato la legna, l’appuntamento sarebbe sfumato.
Come potevo proibirgli per esigenze di servizio di non andare ad un ballo paesano in una sera di aprile?
Ritornò all’alba poco prima della sveglia e non successe nulla al nostro esercito, ma per lui forse, quella fu  la notte più  felice , perché il 26 gennaio del 1943 lasciò la vita sul terrapieno della ferrovia di Nkholaevka.

Vedete quanti ricordi mi legano alla vostra terra, io penso che tutti quelli che erano dalle vostre parti  in quel periodo che precedeva la guerra, che hanno visto le vostre montagne, ovunque vadano  le portano  sempre dentro di sè.

Tenetevi care le vostre montagne, tenetevi care le vostre pezzate rosse, le tome che sono sempre squisite.
Tenetevi care le vostre montagne e difendetele!
Questo è il mio augurio e grazie per questa visita ad Asiago, per il vostro saluto che mi portate.... e portate il mio saluto  alla vostra terra.
Ero  un ragazzo allora, che camminava su di là come un camoscio, ora sono un vecchio che va piano, ma io ho nel cuore le vostre montagne.

Portateci il mio saluto!






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Il ponte romanico sul Piova, finalmente salvato.

Terminati i lavori per la messa in sicurezza del ponte romanico sul Piova.
Soddisfazione di Terra Mia, che da anni aveva richiesto un intervento conservativo.

Tanto tuonò che piovve. Nei primi mesi di quest’anno, finalmente, il ponte sul torrente Piova che sorge sull’antica strada che da S.Anna dei Boschi conduce a Colleretto Castelnuovo non rischia più di crollare.
Grazie ai fondi reperiti dal GAL (ente composto da soggetti publici e privati, che gestisce i contributi finanziari erogati dall’Unione europea) e i Comuni di Colleretto Castelnuovo e di Castellamonte, l’intervento edilizio principale è stato portato a compimento, ed è consistito nel rifacimento della spalletta del ponte che aveva ceduto e ne pregiudicava la staticità. Oltre a ciò si sono ripristinate le spallette del ponte e rifatto l’acciottolato del piano viario.
Grazie all’impegno del Sindaco e dell’Amministrazione di Colleretto Castelnuovo anche l’area circostante il manufatto storico è stata sistemata creando un’area attrezzata con tavoli e panchine. Grazie a ciò, quella che era una zona degradata è ora diventata un potenziale richiamo turistico.
Come Associazione Terra Mia,  non possiamo non dirci soddisfatti anche se, alcune cose, come la scelta di materiale lapideo lavorato (invece di “lose” locali scheggiate) per la copertura delle spallette del ponte, ci lascia al quanto perplessi.
Ma questo è !!!

Speriamo che anche la strada antica, lungo la quale sorge il ponte, e i sentieri lungo la destra orografica del torrente piova, siano ripristinati, permettendo la percorribilità ad anello tra la diga di S.Anna e il ponte antico. Così facendo, si renderebbe possibile la fruibilità e valorizzazione dell’intera area del Basso Piova, che potrebbe diventa
re un’area a richiamo sportivo e naturalistico.

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A bordo del regio incrociatore Duca degli Abruzzi. Diario con testimonianza dell'affondamento corazzata Roma.

A bordo del Regio Incrociatore Duca degli Abruzzi

Diario del marinaio Domenico Braida, con testimonianza dell’affondamento della corazzata Roma


Dopo circa quattro mesi di permanenza a Genova, la sera dell'8 settembre verso le ore 19.30, si apprese a bordo la notizia che l'Italia, da appena poco più di un mese sotto il governo Badoglio, chiese l'armistizio agli anglo-americani.
Detta notizia, che  come è facile immaginare, si propagò in un baleno da cima a fondo della nave, per noi fu d'un subito accolta con grande entusiasmo.
Alte grida risuonavano ovunque tra i vari gruppi di marinai, e innumerevoli berretti volavano in aria. Dopo più di tre anni di guerra e specialmente come li ha trascorsi l'equipaggio nostro, tra tanti disagi e pericoli, è logico pensare come una notizia di tal genere abbia potuto suscitare un sì grande orgasmo, e specialmente tra noi semplici marinai, abbia per qualche momento, regnato come può regnare una cosa di lieto evento, senza farci pensare alle conseguenze;
conseguenze che purtroppo non migliorarono affatto la situazione. Da parecchi anni sono imbarcato e mai mi venne l'idea di scrivere il diario della mia vita di bordo. Solo ora, dall'armistizio, mi venne di annotare i fatti più importanti. Non sarà un diario completo giornaliero, e nemmeno una più o meno lunga narrazione, ma uno scorcio, un riassunto di un tenore di vita che da suddetta data, ho creduto opportuno di notare.
Prima di suddetta data, ho navigato sì ma sempre solamente in Mediterraneo, ed ogni navigazione, sia le missione di guerra o di trasferimento è sempre stata di breve durata, massimo dai tre ai cinque giorni. In dette navigazioni, in fatto di narrazione non mancherebbe l'argomento. I pericolosi agguati del nemico, in parte, anzi in maggior parte sempre scansarvi e in minima parte (per fortuna) incocciati.
Detto nemico, è ora ex, e perciò le mie navigazioni per opera di esso non più si sono limitate al Mar Mediterraneo, ma ecco che anch'io ebbi l'occasione di passare lo stretto di Gibilterra ed avventurarmi nel grande oceano Atlantico. Da ciò volli annotare i fatti, ed in maggior modo le navigazioni. Navigazioni oceaniche che duravano in media da una settimana a 10 giorni. Pagine queste che un lontano giorno (se Dio lo concede) leggerò con piacere perché mi ricorderanno la gioventù che il destino ha voluto che così la passassi e non in modo migliore; pazienza!

Dalla Regia nave Abruzzi Genova 8 settembre 1943.
Trasmessa per radio, stasera verso le 19.00 30 circa ci giunse la notizia che l’Italia chiede l'armistizio alle Nazioni Unite (America Russia Inghilterra).
A bordo della nave, in un primo momento, alte grida di gioia senza pensare alle  conseguenze che avrebbe portato detta notizia. A bordo da noi erano imbarcati un ufficiale tedesco ed alcuni radiotelegrafisti per servizio degli aerei tedeschi in navigazione (intercettazione).
Poche ore dopo la notizia, l'ufficiale di soldati tedeschi vengono sbarcati. Noi si apprende che c’è servizio di navigazione (ossia pronti per partire) ma nulla si sa, né dove si andrà. Intanto scende la sera, il tumulto a bordo è completamente finito. Si accendono le caldaie, le macchine sono sotto pressione; nella notte si partirà, ma per dove?
Mistero, almeno per noi della ciurma (in gergo marinaresco ciurma significa personale componente dell'equipaggio).
Alle ore 02 del giorno 9 settembre suona la sveglia e si fanno gli ultimi preparativi della partenza; verso le 03 si salpano le ancore e si parte (ancora non si sa per dove).
La notte è buia, e non essendo il mio turno di guardia, prendo un salvagente e mi rimetto a dormire. Verso le otto del mattino svegliatomi, salgo in coperta e mi vedo in alto mare.
Dopo aver guardato un po' di qua e di là scorgo all'orizzonte dei profili di navi. Da Genova sono partiti con noi gli incrociatori Garibaldi e Duca d'Aosta. Le navi scorte in lontananza, erano partite contemporaneamente a noi da La Spezia, ed erano parecchie unità di diverse specie tra navi da battaglia (corazzate) incrociatori e cacciatorpediniere. Definirò in modo più o meno preciso i nomi e la specie: tre corazzate da 35.000 tonnellate  (Vittorio Veneto Roma e Italia) due incrociatori da 7000 ton.  (Eugenio di Savoia e Montecuccoli) e l'Attilio Regolo di 3000 ton. ed un numero di cacciatorpediniere che causa la quantità non so definire il numero e il nome. Navigavamo così tutti in formazione, e già correvano voci che si andava a Maddalena (isola della Sardegna).
Infatti verso mezzogiorno si avvistò la Corsica e contemporaneamente la Sardegna. Ignoravamo ancora le idee che avrebbero avute gli inglesi e delle condizioni che ci avrebbero imposte. Ignari soprattutto di quel che ci sarebbe toccato da parte dei tedeschi. Stavamo per entrare nel golfo di Maddalena, quando un contrordine ci fece girare la prora. Ci allontanammo da Maddalena magari in attesa di altri ordini dagli inglesi, quando ecco che da bordo si avvistano altissimi, quattro apparecchi che veloci si dirigono verso la nostra formazione navale. Subito non si seppe che fare, ma l'indecisione fu breve dato che nessun segnale si era pervenuto da essi, e subito si cominciò a sparare. Purtroppo non ci sbagliammo, che altissime colonne d'acqua ci dissero che le prime bombe erano state sganciate su di noi, ed altre ed altre ancora. Continuò per qualche tempo l'alternarsi delle bombe e del nostro fuoco contro l'aereo. Io, casualmente ero di guardia in plancia ammiraglio, di dove, trovandomi dall'alto ed all'aperto, potevo osservare tutto benissimo. Stavo dunque seguendo (non senza una alquanto abbondante dose di fifa) come meglio mi permetteva la visuale, gli apparecchi ed il fuoco delle nostre artiglierie, quando ecco che un enorme boato squarciò lo spazio e simultaneamente una vampata di fuoco e di fumo di una spaventosa grandezza, si propagò non lontano da noi. La più nuova, la più moderna, la più bella delle nostre corazzate, la nave da battaglia Roma (35.000 ton.) era stata colpita in pieno.
Fu un attimo che seppure breve non dimenticherò mai. Successe che noi zigzagando ci allontanammo velocemente e tutta la nuvolaglia infuocata che proveniva dalla Roma, ci impediva la visuale. Eravamo già alquanto lontani, quando un altro boato non meno forte del primo si fece udire. Era sempre la Roma, la più bella e potente nave della nostra flotta. Era essa  che colpita a morte dalle bombe tedesche, mandava il suo ultimo grido di agonia, prima di inabissarsi per sempre nei flutti azzurri del mare.
Non tanto allora, data la tragicità del momento, come adesso ripensandoci, il cuore mi si gonfia di dolore. Delle 2000 persone circa che formavano l'equipaggio della Roma, pochissimi si salvarono (500 circa). Poco dopo, l'incrociatore Garibaldi fu preso di mira e due bombe caddero vicinissime, una a prora e l'altra a poppa, ma la fortuna lo preservò, lasciandolo illeso.
Navighiamo ancora parecchio sempre inseguiti da aerei tedeschi, ed al fine verso sera ci lasciarono in pace. Un triste pomeriggio quello; credo resterà impresso nella memoria, non solo mia ma di tutti quelli che vi assistettero. Non so dare un resoconto più preciso riguardo questa tragedia, senonché l'ammiraglio di squadra Bergamini, comandante tutta la formazione ed imbarcato sulla Roma perì nell'incidente (ora bisogna vedere se lui non c'entrava in fatto di complicità riguardo all'affondamento, da parte mia mistero). Mentre noi ci allontanavamo dal funesto luogo, alcune navi rimaste indietro per recuperare i naufraghi, non non ci raggiunsero più; seppi più tardi che andarono in Spagna (isole Baleari) e fra esse l'incrociatore leggero Attilio Regolo e i cacciatorpediniere Mitragliere Fuciliere e Carabiniere. Calò la sera e poi la notte come ad oscurare ed obliare il triste avvenimento. Si continuò a navigare ed in  seguito si seppe che si andava verso Malta. Verso l'alba del 10 settembre un fonogramma ci annuncia l'incontro con navi da guerra inglesi, con l'ordine di alzare sull'albero maestro un gran vessillo nero, emblema di neutralità, e ci giunse un messaggio di Sua Maestà il Re di continuare ad eseguire i suoi ordini con fedeltà; la tradizionale fedeltà e disciplina che mai sono venute meno nella Regia Marina Italiana. Costeggiamo per un tratto la Tunisia e fino all'arrivo a Malta più nessun tentativo da parte dei tedeschi; senonché da voci che correvano, ma che io nulla so di preciso, parve che a bordo stesse per scoppiare una rivolta per il motivo che si parlava di far saltare la nave. Ma successe di notte ed in silenzio, cosicché io che stavo dormendo non posso dare alcun dettaglio e la navigazione fino a Malta procedette regolarmente.

Giorno 11 settembre 43 Arrivo a Malta.
Nelle prime ore antimeridiane, arrivammo in vista delle isole Maltesi. Non vi ero mai stato prima, ed il pensiero di essere in territorio inglese, del nemico di poche ore prima, mi diede consenso strano che non so spiegare. Arrivando nella rada, davanti al porto di La Valletta (capoluogo di Malta) scorgemmo altre numerose navi da guerra italiane, giunte poche ore prima di noi e provenienti da Taranto. Anche qui dirò ma solo approssimativamente il nome di alcune di esse. Vi erano le corazzate Andrea Doria, Caio Duilio, e Giulio Cesare tutte di 26.000 ton. Gli incrociatori leggeri Luigi Cadorna di 5000 ton.  Il Scipione l’africano e Pompeo Magno entrambe di 3000 ton.ed un numero imprecisato di sommergibili, torpediniere e corvette. Quasi tutta la flotta italiana era a Malta. Di tutte le navi italiane a Malta fu fatta dagli inglesi una suddivisione. Parecchie furono lasciate nel porto di La Valletta, altre a Marsa Scirocco ed altre destinate nella baia di San Paolo. Nella baia di San Paolo eravamo quattro incrociatori: Duca degli Abruzzi, Duca d'Aosta, Garibaldi e Montecuccoli. Dopo qualche giorno di permanenza a Malta tre incrociatori, l’Eugenio di Savoia, il Montecuccoli ed il Duca d'Aosta e le corazzate Italia e Vittorio Veneto, salparono le ancore ed andarono ad Alessandria d'Egitto. Intanto, oltre a tutte le navi di superficie, giorno per giorno giungevano a Malta pure numerosi sommergibili. Durante la permanenza a Malta non ho da riportare alcun fatto, senonché rimanemmo per circa 23 giorni senza alcun contatto con terra, come segregati.
Partiti da Genova nelle prime ore del giorno 9 settembre 43 siamo giunti a Malta l'11 settembre: impiegammo 55 ore percorremmo miglia 1086 pari a km 2618.

Giorno 4 ottobre 1943 Da Malta a Taranto.
Dopo 23 giorni di permanenza a Malta, nel pomeriggio del 4 ottobre si parte alla volta di Taranto. Navigazione breve e tranquilla. Partiti da Malta nel pomeriggio, arrivammo a Taranto nella mattina del 5 ottobre. Impiegammo 19 ore percorrendo miglia 405 pari a 750 km.
Al nostro arrivo a Taranto, a poca distanza dall'imboccatura del canale, ossia del ponte girevole, scorsi sul pennone che c'è sul castello costeggiante il canale, vicino alla nostra bandiera, quella inglese; provai molto rammarico perché ancora non mi sembrava vero che codesti inglesi fossero in casa nostra. Molte navi, da guerra e mercantili, americane, inglesi, francesi e di altre nazioni ancora erano nella rada, davanti alla città. Noi entrammo in Mar Piccolo e ci ancorammo al largo, in rada pure noi, di modo che per poter andare a terra dovevamo avere qualche imbarcazione.
Alla mia prima uscita in città, notai che seppure da parecchi mesi assente, Taranto era immutata, e voglio dire con ciò che la guerra non vi aveva apportato rovine. Case, strade e palazzi intatti come prima. Restai stupito per il gran numero di contingenti anglo-americani, per di più inglesi. Oltre alla gran quantità di automezzi che circolavano od erano fermi ed allineati in numerosi punti, la prevalenza di numero erano le truppe. Soldati erano in numero come non ne vidi mai, ed oltre a ciò di ogni razza, inglesi, scozzesi, mori, indiani, ed altri ancora; credo sia da paragonare ad una mostra di esemplari di razza umana di tutti gli Stati e possedimenti (d'altronde vastissimi) di ogni parte del mondo appartenenti agli inglesi.
In ogni strada, dalla via principale alla più remota, pullulava questa gente, senza contare i marinai inglesi, anch'essi numerosissimi. Dal gran numero di detta gente, com'è facile immaginare, non poteva derivare nulla di buono. Una cosa ho notato con dispiacere: le risse ed i tafferugli. Nelle ore serali verso l'imbrunire mentre tornavo sulla mia nave, erano rare le volte che non vedessi durante il tragitto dalla città alla banchina, in diversi punti, gente che urlava accalcata, berretti che volavano e facce tumide e peste dai pugni. Riguardo alle numerose risse che succedevano voglio dare un mio giudizio e perciò mi occorre dire che in gran parte, queste succedevano tra marinai italiani ed inglesi. Senza volerlo fui una sola volta implicato e perciò da questa e delle altre che ho potuto osservare posso dare il mio giudizio, che non sarà certamente erroneo. Dirò dunque che gli attaccabrighe, i primi ad incominciare, non sono mai stati i nostri marinai o soldati; no. In quanto a ciò, posso affermare che sia in passato come sempre ognora, il marinaio italiano tanto all'estero come in casa sua, ha sempre avuto un contegno prudente oltre che corretto. Ho inoltre osservato che i marinai inglesi si danno al bere spesso; sono molto dediti  all'ubriachezza, e poi non hanno più cognizione di se stessi, insultano, offendono costringendo gli altri a reagire. Il nostro marinaio invece beve sì (ed anche forte) ma quando ha bevuto se nessuno lo stimola, fa la sua strada, magari cantando a squarciagola ma insultando nessuno. Ecco quel che ho osservato a Taranto nell'ottobre del 43 e per finire dirò ancora una cosa riguardo a queste risse: ad avere la peggio e questo pure lo posso affermare sono sempre stati gli inglesi, sebbene talvolta in numero superiore; posso dire che nel fare a cazzotti il marinaio italiano se l'è sempre cavata ottimamente. A parte le batoste sopradescritte, nessun fatto importante da segnalare durante i giorni trascorsi a Taranto. Pochi giorni dopo di noi arrivarono provenienti da Alessandria d'Egitto gli incrociatori Eugenio di Savoia Duca d'Aosta e Cadorna. Rimanemmo a Taranto dal 5 ottobre al 27.

Giorno 27 ottobre 1943 (Taranto Gibilterra)
Verso mezzogiorno si salpano le ancore e si parte alla volta di Gibilterra. Sappiamo che a Gibilterra ci fermeremo poco e che andremo nell'Atlantico. Durante questa navigazione nulla è successo. Si navigò tre giorni e verso le 16.00 del 30 ottobre, si è in vista della rocca di Gibilterra. La vedo per la prima volta e la mia curiosità è molta. Da una parte la Spagna e l'Africa dall'altra, le colonne d'Ercole, e Atlante, contrasti di grandi monti, che sono le porte dell'Atlantico.
Verso sera poco prima del tramonto, siamo giunti a destinazione e diamo fondo alle ancore, proprio in un'insenatura davanti alla città. Ho potuto visitare la città e mi piacque assai. Negozi pieni di roba di tutti i generi, divertimenti, cabaret, ma il guaio è che noi avevamo pochi soldi e non potemmo fare nulla. Il 27 ottobre sono partiti con noi gli incrociatori Duca d'Aosta, Eugenio di Savoia e Montecuccoli. Il d’Aosta viene con noi, invece il Montacuccoli andrà a Palermo e l'Eugenio di Savoia a porto Said.
Partenza da Taranto verso le 12.00 del 27 ottobre arrivo a Gibilterra verso le ore 18.30 del 30 ottobre. Impiegammo 73 ore percorremmo miglia 1560 pari a km 2889.
Dal 30 ottobre al 6 novembre fui a Gibilterra. Niente da dire.



Giorno 6 novembre
Partenza da Gibilterra per Freetown (Sierra Leone possedimento inglese nell'Africa occidentale nell'Atlantico).
Verso le 16.00 del 6/11 si parte.
Finalmente per la prima volta, sto per avventurarmi nel grande oceano Atlantico. È un magnifico pomeriggio, pieno di sole.
A poco a poco vediamo allontanarsi il porto di Gibilterra. Con un bel mare calmo, si fila a discreta velocità. Come in tutte le mie navigazione, tanto alla partenza come all'arrivo, vado sempre in coperta ad osservare, ed anche ora vi sono. Il paesaggio sfila davanti a noi, da una parte la Spagna e l'Africa dall'altra; a poco a poco il canale si allarga, ed ecco la prospettiva dell'alto mare.
Mentre la nave cammina, un magnifico spettacolo si presta davanti ai nostri occhi: frotte innumerevoli di pesci della lunghezza di circa un metro sono sulla nostra scia e lungo i fianchi della nave e ci seguono come se niente fosse, benché la nostra andatura sia costante. Sono in numero sì grande che ne resto meravigliato e mi diverto un mondo nel guardarli; sono i delfini, e già avevo inteso dire che seguono in gran massa le navi, ma così tanti, mai ne avevo visti.
Da circa un'ora si naviga, ed ecco che di lontano, sulla costa africana a poco a poco una macchia bianca che si fa sempre più grande fino a che una città si rivela ai nostri occhi: è Tangeri con le sue case tutte bianche; anch'essa a poco a poco si allontana. Si scorgono ancora, ma ormai in lontananza, gli ultimi lembi di terra, e la nave procedendo sempre a buona andatura, sta per entrare nell'immenso spazio, composto solo di cielo e di mare. Il grande Atlantico è qui e per giorni e giorni le sue acque saranno l'unica cosa che vedremo.
Per sette giorni navigheremo, prima di arrivare a destinazione.
Durante il tragitto mi capitò di vedere i pesci volanti detti anche pesci rondine. Ancora non avevo avuto occasione di vederne ed ecco che, ora navigando e trovandomi in coperta mi capitò di osservarne alcuni. Magnifici! come una freccia escono dai flutti e si lanciano a lungo a poca altezza dall'acqua; percorrono velocemente una notevole distanza e si rituffa nell'acqua. La forma è uguale ad un pesce, ma solo che le sue pinne hanno forma e dimensioni di un'ala di uccello.
Vederli volare sotto il sole magnifico, che essi sembrano bianche con riflessi d'argento. Durante questo la navigazione e le altre che feci poi mi capitò di vederne moltissimi in frotte di un numero straordinario.
Partito con noi è l'incrociatore Duca d'Aosta; navigazione calma e tranquilla.
Giorno 13 novembre 43 arrivò fra i tavoli.
Verso le 17.00 di detto giorno, dopo una settimana di navigazione, avvistiamo terra. Stiamo per arrivare e dopo qualche ora ecco che facciamo ingresso nel Golfo di Freetown.
L'impressione, mia, alla vista di detta costa, è stata buona.
La vegetazione lussureggiante, e l'aspetto del paesaggio, ottimi. Si entra e si manovra per ancorarsi nella rada di fronte alla città, ma un po' distanti da essa. Al primo vederla, la città mi pare alquanto vasta; è scesa la sera e non mi è possibile osservare altro.
Partenza da Gibilterra: giorno 6 novembre arrivo a Freetown il giorno 13 novembre, impiegando ore 173 e percorrendo 3139 miglia pari a km 5815.
A Freetown, rimanemmo cinque mesi e tre giorni.

Freetown, mattinata del 14 novembre 43.
Da poche ore mi trovo nel continente africano. L'aspetto generale del luogo offre un’alquanto gradita vista. Sto facendo pulizia nel mio locale, quando guardando casualmente fuori dall'oblò, ecco che vedo un negro. Il primo, dal mio arrivo qui. Esso si era portato vicino a noi con una barchetta; la caratteristica piroga o canoa, lunga pochi metri e larga poco più di chi vi è dentro, ed è di legno scavato in tronco.
Essa viene manovrata con la pagaia, specie di remo, cortissimo. Durante la mia permanenza ne vidi poi molte, ed anche di dimensioni più grandi, ma solo di lunghezza, che per largo ci sta, come già dissi, una sola persona.
Molte di queste imbarcazioni sono sempre sotto al nostro bordo; sono negri che vengono a vendere banane, molto abbondanti nella regione. Durante la mia permanenza, ne mangiai molte. Abbiamo vicino a noi l'incrociatore Duca di Aosta. Trascorsero alcuni giorni senza che alcun fatto succedesse, ma si venne poi a sapere che i nostri compagni, i marinai del Duca d'Aosta reclamarono i loro diritti, dirigendosi in massa a poppa e inveendo contro gli ufficiali, ma fu cosa di breve durata e non so di preciso da che provenissero questi reclami.

Giorno 18 novembre 43 - Freetown
Da parecchi giorni una notizia circola nel mio locale musicanti ed oggi si avvera detta notizia. Nella mattinata ci ordinano a tutti noi musicanti di fare gli zaini, perché si sbarca. La musica, facente parte del comando divisione, deve seguire l'Ammiraglio che imbarca sul Duca d'Aosta. Preparo dunque di zaini e nel pomeriggio, verso le 16, sbarco dall'Abruzzi ed imbarco sul Duca d'Aosta. Mi voglio ora soffermare per trascrivere alcuni dettagli. Innanzitutto, dirò che sulla Abruzzi, imbarcato a Genova verso la seconda metà di agosto, si trova a comandare la ottava divisione navale composta da due incrociatori (Duca degli Abruzzi e Duca d'Aosta) l'Ammiraglio di divisione Luigi Biancheri. Uomo di fegato, anzi di tanto coraggio era dotato, da sfiorare quasi la pazzia e non dico troppo. Comandante in prima della nave, è il capitano di vascello Alberto Battaglia, il quale ebbe sempre una parola convincente quando parlava all'equipaggio, ma ultimamente perdette di molto del suo prestigio su di noi. Per me, non posso definirlo né buono né cattivo, ma la mia idea è che fosse anche lui come tanti altri ufficiali (specialmente ufficiali superiori) che nelle condizioni di dopo l'armistizio, ritenevano molto in pericolo (e con ragione) le righe che portavano sul berretto e perché ciò non accadesse, usava egli molta eloquenza nei discorsi che ci faceva. Era pure squadrista fascista della prima ora, cosicché qualcuno dell'equipaggio non seppe tacere, cosicché il signor Battaglia, diverse volte trovò nel suo alloggio certi scritti che credo avrebbe preferito di non trovare. Non fu mai scoperto l'autore di questi scritti, né io sono in grado di trascriverne il contenuto. Sono dunque sul Duca di Aosta.
Giorno 19 novembre 1943.
Verso le ore 10.30 del mattino si salpano le ancore e si parte per la nostra prima missione. Navighiamo ora per gli inglesi e il compito affidatoci è di esplorare una certa zona dell'Atlantico dove si suppone che debbano far rotta delle navi tedesche. A noi l'incarico di intercettarle. Dette navi tedesche chiamate navi corsare, sono alquanto veloci, e mascherate in modo che al vederle non destino sospetti, ma al momento da loro creduto opportuno, ecco che cannoni spuntano lungo le murate, all'improvviso e si parla anche che alcune di esse portino a bordo mezzi di assalto, mas o siluranti. Di queste navi tedesche sparse per l'Atlantico non so dare altri dettagli ed anche i dati sopradescritti mi sono solo stati descritti in modo non certo.
Si dice vengano dal Giappone carichi di materie prime (gomma, caucciù). Le notizie, come già dissi, riguardo a queste navi circa l'armamento dello scafo e lo scopo dei loro viaggi non posso confermarle, ma posso dire che c'erano sul serio ed a noi il compito di cercarle. Così a turno tra d'Aosta e d'Abruzzo, in navigazioni che durano dai sette ai nove giorni, incominciamo a svolgere il compito di esplorazione. Al d'Aosta toccò la prima missione. Non dirò delle navigazione del Duca degli Abruzzi perché sono sul d’Aosta e mi fermerò fino al termine di dette missioni. Durante questa navigazione nessun fatto degno di rilievo, se non che osservo con soddisfazione la purezza delle acque, la limpidità del cielo, in certi giorni, e sempre, le miriadi di pesci rondine che al nostro passaggio si alzano per andarsi a tuffarsi più lontano.
Partenza da Freetown nel giorno 19 novembre ed arrivò il giorno 25. Ore di navigazione 175 miglia percorse 3007 pari a km 5568. In questa navigazione abbiamo tagliato la linea dell'equatore.

Giorno 15 dicembre 43. Partiamo per la nostra seconda missione, sempre all'equatore (a Sud). In questa navigazione capitò una disgrazia che costò la vita a due nostri compagni. Mentre si eseguivano tiri con cannone da 100 mm scoppia una granata, mentre sta per uscire dalla bocca da fuoco. Le schegge volano e feriscono gravemente due marinai. Uno muore poche ore dopo e l'altro il giorno appresso.
Entrambi furono sepolti o per meglio dire messi in mare. Nessun altro fatto da rimarcare. Partenza da Freetown il giorno 5 ed arrivo il giorno 14 dicembre 43 durata della navigazione nove giorni per ore 217 percorso miglia 3442 pari a km 6374.

Giorno 18 dicembre Partenza per la terza missione (sempre a sud sulla linea equatoriale) Come in precedenza si naviga in mezzo all'Atlantico, ma durante questa missione una cosa ci trattiene col pensiero: siamo sotto le feste di Natale e lontani, molto lontani dai nostri cari e nell'impossibilità di comunicare con loro. Sappiamo per di più, che Natale lo passeremo proprio in mare.

25 dicembre 1943 Sono in navigazione tra cielo e mare. Sono vestito con un paio di pantaloncini corti, a torso nudo, eppure muoio di caldo. A bordo non c'è nemmeno una goccia di vino e nemmeno viveri italiani. Si mangiano viveri inglesi che non sono da confrontare alla nostra cucina italiana. Giornata per me alquanto triste e piena di lontani ricordi. Durata della navigazione ore 215 miglia percorse 3367 pari a km 6235 giorni 8

1 gennaio dell'anno 1944.
Capodanno. Anche questa festa non ha la posso fare in pace che all'alba del 1 gennaio, si salpano le ancore.Partiamo per la quarta missione, sempre in cerca delle navi corsare tedesche.
Triste Capodanno, lontano da tutti e da tutto, senza nemmeno un bicchiere di vino per festeggiarlo; quanti ricordi, e quanto sono in pensiero per i miei cari lontani che non sanno nulla di me, come io non so nulla di loro. Oltre a ciò, il caldo è sempre eccessivo e tutti siamo vestiti con un solo paio di pantaloncini corti ed a torso nudo, cosa che mi fa pensare alle nostre feste di Natale e Capodanno, con la neve e col freddo; invece ora, oggi, 1 gennaio 1944 cielo e mare e null'altro, vicino all'equatore.
A parte il pensiero del ricordo dei Capodanni passati, nessun fatto da trascrivere, durante questa navigazione. Partenza il giorno 1 gennaio 45 arrivo il giorno 8 gennaio 73 ore di navigazione1800 miglia percorse pari a km 5185.

Giorno 13 gennaio 1944.
Partenza per la nostra quinta missione, solo che questa volta non si va più al sud, verso l'equatore, ma andiamo al Nord. Nessun fatto da rilevare. Partenza il giorno 13 arrivò il 20 ore 197 di navigazione, miglia percorse 3200 pari a km 5926.

Giorno 24 gennaio 1944.
Si parte per la sesta navigazione al Nord. Sempre e sempre per giorni e giorni, cielo e mare, mare e cielo fu tutto. Nulla da segnalare. Partenza il giorno 24 arrivo il giorno 31 gennaio ore 159 di navigazione 2895 miglia percorse pari a km 5361.

Giorno 8 febbraio.
Partenza per la settima navigazione a nord, nessun fatto da segnalare. Partenza il giorno 8 febbraio arrivo il giorno 15 ore 195 di navigazione  3100 miglia percorse, pari a km 5741.
E qui terminano le nostre missioni nell'Atlantico. Grazie a Dio navi tedesche non se ne sono incontrate. Per un po' di giorni stiamo fermi in rada e poi entriamo in bacino galleggiante per riparazioni. Miglia percorse durante dette navigazioni in Atlantico 21.811 pari a km 40.399.
Finite le navigazioni sopradescritte, si sta alquanto tempo fermi a Fretown; a un punto durante il nostro soggiorno in detto luogo, vedemmo arrivare una corazzata americana, una bella nave e assai ben armata. Ci furono pure due incrociatori francesi: il Suffren e il Georges Leigues; dette navi furono tutte solo di passaggio.
Voglio notare una cosa venutami ora in mente, nominando gli incrociatori francesi: il grande astio che i marinai francesi hanno per noi. Ho potuto notare che ogni qualvolta noi gli passavamo vicino, erano fischi, urla, minacce, sberleffi e ingiurie di ogni genere. Ma qui non posso astenermi dal dire questo: detti insulti dei francesi, furono sempre fatti abusivamente. Li ho visti gridare solo quando, passando in motobarche sotto le loro navi, essi ci vedevano nell'impossibilità di reagire; incontrandoli per strada, se non erano in numero superiore, non hanno mai osato aprire bocca, e noi se anche talvolta in numero superiore, ci astenemmo sempre dal molestarmi; ed ecco un esempio del comportamento del marinaio italiano, benché sotto il peso enorme di un immenso dolore: dover subire le condizioni dell'armistizio, senza sapere quali precisamente esse siano, e per di più, subire angherie da marinai di altre nazioni. Si seppe che, proveniente da Taranto, doveva venire qui con noi, l'incrociatore Garibaldi, ma non si sapeva il giorno esatto. Finalmente la mattina del giorno 18 marzo, si salpano le ancore e partiamo, e si sa che andiamo ad incontrare il Garibaldi. Verso le 11 della mattinata, una sagoma delineasi all'orizzonte; è lui e con lui entriamo nel porto di Freetown dove ora sono tre navi italiane: Duca d'Aosta, Duca degli Abruzzi e Garibaldi, ma però per ora nessun compito ci è affidato dai signori inglesi. Dopo alcuni mesi di permanenza sul Duca d'Aosta, il giorno 24 marzo ritorno sul Duca degli Abruzzi, il quale pure lui deve entrare in bacino galleggiante per riparazioni.

Giorno 25 marzo.
Il Duca d'Aosta ed il Garibaldi partono alla volta di Gibilterra per ritornare in Italia; noi li seguiremo non appena avremo terminati i lavori di riparazione della nave. Ecco che anch'io, fra qualche giorno tornerò in Italia. Sono contento di tornare in patria, ma dirò che Freetown mi è molto piaciuta come città sotto tutti i punti di vista. Il clima è caldo, ma ancora assai sopportabile, la vegetazione, in certi punti è lussureggiante e magnifica; frutta, e banane in special modo, non manca. Anche le numerose volte che mi sono recato in città, mi è sempre piaciuto; roba da comprare ce n'era a bizzeffe, ma noi avevamo pochi soldi, ma quei pochi c'era modo di spenderli bene (vestiti, caffè, roba utile di tutte le qualità) e se anche uno voleva divertirsi c'era modo di bere vino, liquori, te e paste; donne poi non mancavano. Anzi mi voglio soffermare per dire che in fatto di donne (tutte negre) e mulatte solo qualcuna, è molto ma molto sviluppata la prostituzione. In quasi tutte le abitazioni di questi negri, basta entrare e senza nulla dire, mettersi d'accordo sul prezzo; ma dirò pure che la sifilide, la più spaventosa delle malattie veneree, è in pieno, e bisognava perciò stare molto attenti e preservarsi. Donne europee se ne vedevano ben poche. Mi piacque tanto come era posta la città; gli abitanti erano cordiali assai, e mai nessun fatto ingenerò risse tra noi e gli abitanti (in prevalenza negri).
Dirò ancora che Freetown è città capitale di una regione molto ricca. Infatti Sierra Leone, nell'interno ha miniere di oro e diamanti e da ciò, molte diramazioni stradali e assai movimento in città. Mi ricorderò sempre di questo luogo, dove, sebbene tanto lontano dai miei cari, ho avuto modo di svagarmi un po'. Essendo poi la regione molto boscosa, non mancava poi la giungla dove pullulavano gli animali feroci e di tutte le specie; da ciò proviene che  è molto sviluppata la lavorazione ed il commercio delle pelli; peccato sempre che non avevamo denari abbastanza. In conclusione, per finire, ripeto ancora che ricorderò sempre questo luogo che mi è molto piaciuto

Giorno 16 aprile
Nella sera di questo giorno, verso le 23, si parte alla volta di Gibilterra. Sappiamo che impiegheremo circa una settimana, ormai la lunga permanenza in mare non mi spaventa più. Durante questa navigazione, calma e tranquilla, nulla da segnalare.
Partenza da Freetown il giorno 16 aprile ed arrivo a Gibilterra il giorno 22 aprile 133 ore di navigazione miglia percorse 2669 pari a kilometri 4342.
A Gibilterra siamo in mattinata verso le 10. Potuto recarmi in città. Anche qui, in città molto traffico, molta gente, molta roba nei negozi, che noi marinai ci tira molto alla gola, ma soldi pochi, molto pochi.

Giorno 25 aprile.
Partiamo nel pomeriggio e sappiamo che andiamo a Taranto, ma però passeremo ad Algeri e ci fermeremo per depositare delle persone (borghesi diplomatici) imbarcati a Gibilterra, ed abbiamo pure altro personale italiano che dobbiamo portare in Italia. Ci sono uomini donne e bambini.
Partenza da Gibilterra il giorno 25 aprile, arrivo ad Algeri il giorno 26 aprile 44 ore di navigazione miglia percorse 443 pari a  kilometri 820.
Arriviamo in vista di Algeri nel pomeriggio ed abbiamo un mare molto mosso e diversi fra il personale civile, soffrono il mal di mare. È tanto mosso il mare che ci impedisce di entrare in porto e solo la mattina del 27 è possibile entrare in porto e ci ormeggiamo nella banchina, proprio di fronte alla città, ma già sappiamo che non sarà possibile per noi scendere a terra, ed è un vero peccato, che per noi marinai, abituati a girare porti nazionali ed esteri, guardando la città di Algeri che dalla nostra nave è vicina assai, presenta una buona prospettiva, infatti è una bella città, caratteristica ed invitante, come tutte le città di mare. Ma niente da fare, ci fermiamo pochissimo, in giornata partiamo alla volta di Taranto. Alla partenza abbiamo un mare nuovamente molto mosso. Partenza da Algeri il giorno 27 aprile ed arrivò a Taranto il giorno 29 aprile impiegando ore 43 percorrendo miglia 1969 pari a  kilometri 1793.
Arriviamo a Taranto verso mezzogiorno e all’una possiamo il ponte girevole ed entriamo nel mar piccolo, dove vediamo che molte navi inglesi ed italiane sono attraccate alla panchina. Mi reco in città, a Taranto, ed osservo che non c'è più la gran confusione causata dalla truppe alleate, come c'era nell'ottobre del 1943. Nei negozi ogni mercanzia è ad un prezzo enorme, non alla portata delle nostre tasche. La roba scarseggia. Il mercato nero (contrabbando) funziona in grande stile e su ogni genere di roba. Ci fermiamo a Taranto pochi giorni. Sappiamo che dobbiamo andare a Porto Said.

Taranto giorno 2 maggio 1944.
Nel tardo pomeriggio partiamo alla volta di Porto Said. Anche questa città è per me un posto nuovo, sono curioso assai di arrivarci. Partenza da Taranto giorno 2 maggio. Arrivo a Porto Said  il giorno 5 maggio ore di navigazione 59 miglia percorse 1268 pari a kilometri 2368.
Porto Said, nell'Egitto, all'imbocco del canale di Suez. Anche qui la città è magnifica, sarebbe per noi piacevole il visitarla, ma ci è impossibile scendere a terra. Anche qui ci sarebbe occasione di poter comprare la roba da mercanti che vengono sottobordo con delle barche, cariche di mercanzie (stoffe calze scarpe per oggetti di pelle pietrini accendisigari) molta mercanzia, ma come sempre noi poveri marinai per mancanza di denaro non possiamo comperare niente, mentre guardiamo diversi nostri signori ufficiali che fanno affari con i mercanti. Questa è una cosa che noi ci resta un po' sul collo, tanto più che ancora ci debbono pagare il mese e per di più ci devono dare dei soldi di quando eravamo in Africa perché là ci davano solo una parte della paga ed il resto lo segnavano in un libretto; con tutto questo, il grosso dell'equipaggio incomincia a mormorare e credo non andrà a lungo che tutti in massa andremo a reclamare i nostri averi.
Infatti ecco che si avvera in giornata il mio presentimento. Infatti nel dopopranzo, ecco che il grosso dell'equipaggio si dirige in massa verso poppa dal comandante, ed ecco che dopo pochi giorni ci danno anche noi la possibilità di poter comprare qualcosa (ma ben poca roba in confronto alla quantità dei nostri superiori).
Giorno 6 maggio 1944
Partenza da Porto Said.
Per la prima volta attraverso il Canale da Porto Said a Suez. A metà strada circa di questo canale si trovano dei laghi detti Laghi amari, che hanno questo nome perché prima di scavare il Canale erano propriamente laghi, solo che avevano infiltrazioni di acqua di mare e perciò essendo l'acqua salmastra erano chiamati Laghi amari che sono due, il piccolo e di grande Lago amaro, i quali ora sono attraversati dal Canale di Suez. Ci dovremo fermare al grande Lago amaro perché li si trovano da parecchio tempo le nostre due maggiori navi da battaglia, le corazzate Italia e Vittorio Veneto alle quali dobbiamo portare materiale proveniente da Taranto. Partiti da Porto Said alle 8.00 arriviamo al gran Lago amaro alle 15 pomeridiane percorrendo 70 miglia in 7 ore ossia 10 miglia orarie; non che andassimo adagio così per qualche avaria, ma è perché navigando nel Canale di Suez, essendo esso di scarsa profondità, le navi devono per forza per la loro sicurezza ridurre la velocità. Ci fermiamo qualche giorno per sbarcare la roba destinata alle corazzate e poi proseguiamo per Suez.

Giorno 11 maggio 1944
Dal gran Lago amaro a Suez partenza alle 8.00 arrivo a Suez alle 11.40 percorse 20 miglia. Siamo venuti a Suez per fare esercitazione agli apparecchi aerosiluranti inglesi. Ci fermiamo a Suez nove giorni, svolgendo molte attività nell'esercitare questi apparecchi inglesi, navigando mattina e sera.
Giorno 20 maggio
Da Suez ci rechiamo nuovamente ai Laghi amari e proseguiremo poi per tornare in Italia. Parlando del Canale di Suez, che ho potuto osservare bene, era innanzitutto il gran vantaggio che esso porta ai navigatori perché per via di esso, dall'oriente si può accedere in Mediterraneo, perché altrimenti le navi dovrebbero fare il giro di tutta l'Africa e passare da Gibilterra per entrare in Mediterraneo, invece che così in poche ore si risparmia un giro che durerebbe settimane. Ecco la grande importanza commerciale che ha. La sua larghezza è di circa una cinquantina di metri, ma la profondità dell'acqua è poca ed oltre a ciò, lateralmente è meno ancora, ecco perché si viaggia a velocità molto ridotta ed una sola nave  può navigare in larghezza; per attraversarlo s'impiega circa 12 ore. Lungo il Canale da Suez a Porto Said una strada litoranea ed una ferrovia lo costeggiano; il terreno è piuttosto arido, bruciato dal sole, con scarsissima vegetazione. In questa epoca molti accampamenti di prigionieri sono lungo esso. Ora siamo ai Laghi amari, pronti per rientrare in Italia. Ci fermiamo soltanto per imbarcare del personale della nostro corazzate che deve recarsi in Italia.
22 maggio 1944
Nella mattina verso le 8.00, si parte da Porto Said. Gran confusione a bordo, perché oltre a noi, ci sono altri 600 persone delle corazzate. Arriviamo a Suez nel pomeriggioverso le ore 16.30.

Giorno 23 maggio Porto Said
Partenza per Taranto; verso mezzogiorno si salpano le ancore; lasciamo Porto Said, chi sa se torneremo ancora? Benché non abbiamo potuto visitare la città, sono posti nuovi che fa sempre piacere vedere. Un'altra cosa, degna di rilievo e che quasi tralasciavo di notare: durante la breve permanenza ai Laghi amari, ho avuto agio di osservare il tramonto del sole. Un simile gioco di colori non lo avevo mai visto; è una cosa magnifica, impossibile a descriverne la bellezza; cosa che non dimenticherò mai; l'azzurro del mare che sotto i raggi infuocati dell'effetto dell'oscurità nascente, si carica di un colore puro, oscuro nello stesso tempo risplendente, un gioco di colori stupendo. Ora navighiamo; Porto Said che scompare un poco alla volta dalla nostra vista. Buona andatura, ci dirigiamo verso Taranto. Navigazione calma e tranquilla. Partenza da Porto Said 23 maggio 1944 arrivo a Taranto il giorno 25 maggio, navigazione di 53 ore, 954 miglia percorse pari a km 1766.
Taranto giorno 1 giugno 44
Si entra nel bacino per riparazioni e ci fermeremo a Taranto per circa due mesi.
                                                   Incompiuto per svogliatezza.
Dirò solo che dal 15 luglio in poi abbiamo fatto molti viaggi da Napoli a Cagliari (Sardegna) portando profughi da Napoli e truppe da Cagliari e diversi viaggi da Napoli a Messina e Napoli Palermo e poi uno da Napoli a Biserta (Tunisia) e Biserta Malta. Diversi viaggi da Malta a Taranto trasportando marinai inglesi.
Ed ora, giorno 28 maggio 1945, dopo quasi tre anni, parto per la licenza e mollo in bando questo misero manoscritto, misero ma caro a me perché pieno di giorni belli e brutti, ma specialmente pieno della mia gioventù .  Fine.



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Liberator KG 875, volo senza ritorno.

Liberator KG 875, volo senza ritorno.

Il 12 ottobre 1944, un quadrimotore con 8 uomini di equipaggio, si schianta in Val Soana.

Nell’autunno del 1944 le Armate alleate si erano attestate sull’Appennino, in prossimità della pianura Padana; in Piemonte il movimento partigiano provato, ma non vinto dall’offensiva tedesca dell’estate, era riuscito a riorganizzarsi e si stava preparando a trascorrere un altro inverno sulle montagne.
Lo stabilizzarsi del fronte e la prospettiva di una tregua di fatto durante l’inverno, indusse il generale Kesselring ad ordinare una massiccia operazione contro le formazioni partigiane, con pesanti rastrellamenti e rappresaglie contro la popolazione civile che aiutava i patrioti.
I comandi Alleati consapevoli dell’importante contributo che la lotta partigiana stava dando, impegnando intere divisioni di tedeschi, che altrimenti sarebbero state inviate al fronte, organizzarono nella prima quindicina di ottobre,  una massiccia operazione di  aviolanci di armi e materiali destinati alla Resistenza, anche se bisogna dire che essi furono ben poca cosa a confronto delle enormi esigenze della lotta partigiana.
A questo fine furono stabilite delle aree idonee e concordati messaggi radio in codice, con le formazioni della Resistenza, operanti in Liguria e Piemonte per stabilire il luogo e la data di lancio.
Per molti partigiani iniziarono notti di attese, accanto a cataste di fascine da incendiare all’ora stabilita e ad affrontare le inevitabili polemiche tra formazioni, per la suddivisione di armi, munizioni, vestiario a volte ancor prima dell’arrivo dei materiali.
Si è sempre saputo poco sugli obbiettivi e sui destinatari di questa operazione, ma ora, grazie ed un’accurata ricerca di Beppe Barbero, che ha messo a confronto la documentazione disponibile si può stabilire che gli obbiettivi ai quali destinare gli aiuti erano quattro: il primo denominato CHRYSLER era la zona dell’Ossola; il secondo MORRIS era ubicato ad est di Genova; gli altri due: DODGE e PARROT: per queste due aree di lancio  l’identificazione risulta più incerta, ma si ritiene però che la prima zona fosse nei pressi di Bra, mentre la seconda tra Vigone e il Torrente Pellice.
L’attuazione di questa missione fu  assegnata al 31° e 34° Squadrone della South African Air Force, inquadrati nella R.A.F. Questi due squadroni erano stati costituiti il primo, nel gennaio 1944 e il secondo nel luglio dello stesso anno. Il personale sudafricano, giunse in Egitto e una parte di piloti e specialisti si recò in Palestina per addestrarsi sugli aerei  Liberator 24 messi a disposizione dagli americani.
Dopo alcune operazioni nel mar Egeo, a metà giugno, gli aerei furono spostati all’aeroporto di Celone, vicino a Foggia, già occupato dagli americani.
Da luglio a settembre, questi squadroni, con equipaggi misti formati in prevalenza da sudafricani ed inglesi, cominciarono le operazioni belliche sui Balcani con bombardamenti alle raffinerie ungheresi e romene e con arditi lanci di mine, lungo il corso del Danubio per ostacolare i rifornimenti alla Germania attraverso quell’importante via d’acqua.
 Nella prima decade di ottobre il maltempo influì pesantemente sull’operatività dell’aeroporto di Celone con veri e propri allagamenti che avevano reso la pista inagibile e questo fece continuamente slittare la massiccia operazione di rifornimento ai partigiani del nord Italia.
Il maltempo era destinato a durare, ma una breve fase di condizioni meteorologiche accettabili, fu prevista per il giorno 12 ottobre e così venne dato l’avvio a quella che si rivelerà come la più disastrosa e tragica missione costata alla S.A.A.F.: 6 aerei e 48 uomini di equipaggio, persi nel giro di qualche ora non perché abbattuti dal nemico, ma per incidenti causati dalle pessime condizioni meteorologiche.
Un tragico destino penalizzò il 31° squadrone al quale fu chiesto di rendere operativi tutti gli equipaggi e i 16 aerei disponibili, ai quali si aggiunsero solo 4 del 34° squadrone, per permettere al personale di partecipare ad una festa da ballo organizzata a Foggia.

Quel tragico 12 ottobre ’44, fu quindi pianificato l’invio di venti aerei, cinque per ognuna delle zone di lancio previste. Un impegno notevole che richiese una preparazione complessa. I meccanici ed il personale di terra lavorarono tutto il giorno; si caricarono nel vano bombe di ogni aereo 12 contenitori paracadutabili da 300 libbre (150 Kg), mentre agli equipaggi venivano illustrati gli obbiettivi e vennero rese note le coordinate e le segnalazioni ottiche concordate per il riconoscimento degli obbiettivi a terra.
Intanto le condizioni meteorologiche, non migliorarono di molto rivelandosi peggiori del previsto, soprattutto nei cieli del nord-Italia, con una nuvolosità estesa tra i 1500-3000 metri, ma la macchina organizzativa si era messa in moto e nonostante ciò fu dato l’ordine di decollare.
I giganteschi quadrimotori Liberator 24 rullarono sulla pista  e decollarono tra le ore 16:00 e le 16:40, dirigendosi sulla verticale dell’isola di Ponza, per poi raggiungere, sempre sorvolando il mare, le coste della Liguria e da qui agli obbiettivi assegnati.
Da notare che gli aerei dovettero affidarsi alla navigazione cieca con grande preoccupazione dei navigatori e dei piloti che si rendevano conto della pericolosità di tali operazioni in un’area circondata da montagne di quota elevata.
Quando sorvolarono il Piemonte erano quasi le ore 20, e il buio e il cielo coperto costrinsero i piloti a scendere al disotto della quota di sicurezza nel tentativo di avvistare qualche segnale per poter effettuare i lanci. Fu una manovra rischiosissima, che segnò tragicamente la missione.
Dei venti aerei partiti solo tre riuscirono ad effettuare il lancio degli aiuti, altri 11 dopo aver inutilmente cercato di individuare gli obbiettivi, rientrarono alla base e i restanti 6 velivoli furono attesi invano e nessun collegamento radio poté essere stabilito con loro.
Trascorso il tempo limite di autonomia e senza comunicazioni da altre basi in merito ad eventuali atterraggi di fortuna o segnalazioni sulla loro sorte, furono dichiarati dispersi.
L’impatto psicologico sul reparto fu pesantissimo con la perdita di 48 uomini, tutti del 31° squadrone, in una missione che sarebbe stata non particolarmente pericolosa se svolta con tempo meteo buono, in quanto nessuno degli aerei rientrati aveva segnalato l’intervento dell’antiaerea a parte una debole reazione nell’area di Genova, né erano stati segnalati caccia notturni in azione.
Le ipotesi sulle perdite si concentrarono da subito sull’eventualità di incidenti contro le montagne e successivi rapporti delle missioni alleate in Piemonte  confermarono la tesi segnalando il ritrovamento da parte dei partigiani di due aerei schiantatisi sulle montagne a Ovest dell’obiettivo PARROT.
Per gli altri equipaggi caduti in aree più impervie fu necessario attendere la fine delle ostilità, quando con la raccolta di segnalazioni sul rinvenimento di aerei alleati abbattuti o precipitati, fu possibile risalire alle località degli incidenti e ai luoghi di sepoltura degli aviatori.
Di un velivolo destinato alla missione MORRIS, non fu mai possibile reperire alcuna notizia, così che si ipotizzò che potesse essere disperso in mare, anche in considerazione della vicinanza  della zona di lancio alla costa.

Quella tragica sera, la Valle Soana era sferzata dalla pioggia e tutte le montagne coperte da una spessa coltre di nubi, il buio era già sceso e gli abitanti si erano ritirati nelle loro case, quando un forte bagliore illuminò la valle seguito da un forte boato.
Subito fu chiaro a tutti che non poteva essere stato un fulmine e si affacciarono sull’uscio a scrutare il cielo.
Nazzareno Valerio, “Eno” per tutti, guida alpina, all’epoca aveva solo 7 anni, ma degli eventi di quella notte ancora si ricorda e in un’intervista rilasciata al giornale “La Stampa” disse che quella sera, dopo il boato, si intravidero tra le nebbie delle lingue di fuoco e dei bagliori alzarsi nell’alta valle dell’Arlens, oltre i 2200 metri, quasi sullo spartiacque fra la Val Soana e la Val Chiusella.
Quello schianto era la fine del volo dell’aereo contrassegnato KG875, uno dei 20 Liberator decollati dall’aeroporto di Celone in Puglia e uno dei sei precipitati  di quella sfortunata missione.
Era decollato alle 16.15 e aveva come obbiettivo la zona denominata CHRYSLER che comprendeva la bassa valle del Toce a nord del lago d’Orta.
Non si conosce la dinamica dell’incidente, potrebbe essere che giunto sulla Liguria, abbia seguito l’arco alpino per evitare di essere individuato e attaccato e probabilmente per le pessime condizioni meteorologiche o uno sbaglio di rotta aver urtato il crinale tra la Valle Soana e la Val Chiusella.
Certo è che non vi fu scampo per l’equipaggio, che era formato da 8 uomini al comando del sudafricano capitano pilota Beukes Leonard von Solms di 27 anni, nato a Pretoria nella regione del  Transvaal, sposato e da poco padre di una bimba. Gli altri membri dell’equipaggio erano tre sudafricani e 4 inglesi, due avevano appena 20 anni.
Il luogo impervio in cui l’aereo cadde e le successive abbondanti nevicate, ostacolarono il recupero delle salme, che furono portate a valle solo nella  primavera del 1945 ed inumate nel cimitero di Pianetto.
 Appena fu possibile iniziò però il saccheggio dell’aereo e dei materiali non andati distrutti nello schianto.
Molte lamiere divennero coperture per le baite e parti dell’aereo furono smontate e utilizzate per gli usi più svariati, suggeriti dalla penuria di quegli anni di guerra; i rottami della carcassa divenne una miniera di metalli ferrosi, ma anche pregiati come l’alluminio, il rame, ecc. molto ricercati all’epoca.
Intanto con l’avvenuta Liberazione, le autorità del governo militare alleato avevano iniziato il lavoro di ricerca e censimento delle località in cui erano sepolti i caduti alleati, raccogliendo le segnalazioni delle formazioni partigiane e delle autorità comunali.
Una delegazione Alleata venne anche in Val Soana e organizzò la riesumazione degli otto aviatori facendoli portare a Trenno, nella periferia milanese dove sorge il Cimitero di guerra di Milano e riposano 417 caduti della seconda guerra mondiale, appartenenti alle nazioni del Commonwealth che parteciparono alla lotta di liberazione in nord Italia.
La stessa delegazione scrisse in una sua relazione, che l’aereo“ Liberator caduto sulla montagna dell’Arlens, venne letteralmente smantellato dagli abitanti delle valli.” Da allora degli 8 aviatori e dell’aereo quasi si perse la memoria e pochi erano quelli che conoscevano l’esatto luogo dello schianto. Chi scrive, qualche anno fa, ha avuto l’occasione di partecipare insieme ad un gruppo di amici, tra i quali il direttore del Canavèis, ad un’escursione guidata da Lino Fogliasso su quelle montagne. Dopo una lunga marcia giungemmo sul luogo dell’impatto e fu un momento toccante il rivivere con il pensiero la tragedia di quegli otto giovani avieri, due dei quali appena ventenni.
Nei dintorni alcuni pezzi dell’aereo erano ancora incastrati tra le rocce del torrente e il più grande, la parte terminale del carrello, aveva l’ammortizzatore che sosteneva i pneumatici ancora  con la cromatura luccicante.
Lo scorso anno grazie al Soccorso Alpino e alla Pro Loco di Valprato Soana, che hanno voluto l’iniziativa, questo reperto è stato trasportato a valle con l’elicottero e adagiato accanto ad un masso di granito, ed ora costituisce il monumento dedicato ai caduti del Liberator KG875.
La cerimonia di inaugurazione si è svolta a Pianetto dove sorge il monumento e con le Autorità civili militari e religiose erano presenti anche un gruppo di parenti dei caduti giunti per l’occasione dal Sudafrica e dall’Inghilterra. Sono stati momenti commoventi, con la banda degli alpini che suonava i rispettivi inni nazionali e un famigliare delle vittime che scandiva i nomi dei caduti.
Dopo quasi 70 anni, quei ragazzi venuti da lontano, che dettero la loro vita per aiutare altri ragazzi, che tra quelle montagne lottavano per una causa comune, finalmente sono  ricordati e i loro nomi sono scolpiti nella lapide che ricorda il loro sacrificio.



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