giovedì 17 marzo 2011

Santi madonne e curiosità negli affreschi murali del Canavese


Altorilievo del 1636 sito in Castellamonte via Massimo d'Azeglio    n°193
Sono decenni che studiosi e appassionati di storia locale segnalano l’importanza storica e artistica di un altorilievo in stucco posto sulla facciata al numero civico 193 di via Massimo d’Azeglio a Castellamonte. 
Esso raffigura la Madonna del Rosario attorniata da angeli e un santo orante. e ancora alcuni decenni fa si poteva leggere “Famiglia Reasso 1638”.
Questo altorilievo è una preziosa testimonianza del XVII secolo castellamontese e come tale andrebbe tutelato e salvato dal completo degrado.
In attesa di un doveroso restauro, esso ci da lo spunto per alcune riflessioni sulle numerose pitture murali e piloni votivi che si trovano sul nostro territorio


Innanzi tutto va detto che, aldilà del valore artistico, perlopiù scarso, salvo poche eccezioni come quello precedentemente menzionato e prescindendo dall’atteggiamento che ognuno di noi ha verso la religione e le sue manifestazioni di devozione popolare, queste opere sono pur sempre frutto della cultura e delle tradizioni del nostro popolo e quindi come tali vanno rispettate e valorizzate.
Inoltre per un’ osservatore attento,  che sappia leggere e interpretare oltre l’apparenza, questi dipinti
offrono spunti di riflessione su come è cambiata nel corso dei secoli la rappresentazione iconografica della divinità, e dalla dedizione che certe comunità, borgate, o singoli  accordavano a determinati santi per averne la protezione da eventi drammatici che in quel periodo storico affliggevano il singolo o la comunità.
Così in periodi di epidemie e pestilenze il popolo si affidava a Santi di cui era nota o presunta la capacità taumaturgica; oppure in epoche di scarsa sicurezza delle strade dovuta a bande di briganti e taglieggiatori  che minacciavano i viandanti ci si affidava ai protettori dei viaggiatori e pellegrini.
Ne consegue che il particolare diffondersi di un santo, piuttosto di un altro in una determinata zona e in un determinato periodo storico può essere letto anche come la manifestazione di un “problema” specifico della comunità .
La devozione a un santo poteva essere soggetta a quel fenomeno che oggi chiameremo “di moda” Nella nostra zona santi come S.Grato e S.Rocco sono diffusi, in altre zone d’Italia praticamente sconosciuti.
Nel passato erano centinaia i santi a cui si rivolgeva la devozione popolare e ogni regione aveva i suoi preferiti, contribuendo così ad un pluralismo devozionale. Attualmente, con l’enorme potere totalizzante dei mezzi di comunicazione, anche in questo settore si diffonde il culto di quelli che raggiungono la ribalta. Basti per tutti il caso di Padre Pio e dell’importante ruolo avuto dai mezzi di comunicazione per la diffusione del suo culto.

Anche la rappresentazione iconografica della Madonna è variata attraverso i secoli, tanto da permetterci di riconoscere tramite la sua postura, l’abbigliamento, la posizione del bimbo in grembo, il periodo e le dominanze politiche culturali del momento.
In questo modo prima del XV secolo la composizione madonna-bambino ha uno stile severo e la fissità degli sguardi accentua la sacralità. Il bambino era vestito e solo alla fine del XV secolo comincia ad apparire nudo, parzialmente coperto dal manto della Vergine.
La più antica rappresentazione della Madonna esistente a Castellamonte si trova affrescata in una sala  situata nella parte più antica del castello.
L’opera è stata giudicata dagli esperti come risalente al tardo 1400 e rappresenta la Madonna con Bambino , seduta su di un trono in stile gotico, con tenuità di colori e soavità di tratti che ricordano lo stile del rinascimento lombardo.

In periodo rinascimentale il bambino aumenta la sua visibilità all’interno dell’immagine, esso è un paffuto bimbo dai capelli chiari, posizionato a volte sulla destra a volte sul ginocchio sinistro; ha un portamento vivace che lo umanizza  mentre con la mano benedice con le due dita unite, secondo il canone latino.
Spesso la Madonna in altre raffigurazioni porta la corona (simbolismo cosmico) e lo scettro (il bastone del comando) a simboleggiare il dio unico che governa l’universo e il re che lo rappresenta sulla terra.
Girando per il Canavese ed osservando con attenzione i numerosi affreschi e piloni votivi troveremo una varietà di modi con i quali è stata rappresentata la Vergine ed ognuno ci può aiutare a dare una datazione  ed a “leggere” una quantità di informazioni storico-artistiche.
La più curiosa si trova in una cappella sulle colline di Borgofranco e rappresenta la Madonna a seno nudo che allatta il Bambino.
Un capitolo a parte meriterebbero le numerose Madonne nere esistenti in Canavese, divise tra quelle di Belmonte e di Oropa.
E’ noto come le religioni si sovrappongono ad altre più antiche adattandosi e conservandone alle volte certi aspetti e la rappresentazione della Madonna con Bambino è riconosciuta dagli studiosi come la continuazione figurativa della dea-madre della fertilità, già presente nella civiltà egizia, dove Iris allatta Horus simbolo del sole.
Se questo è vero, osservando la rappresentazione iconografica delle Madonne nere è difficile non fare paragoni  e non trovare similitudini con la rappresentazione della dea egizia.
Infatti al di là del colore esotico della pelle, troviamo la posizione centrale del bimbo e la particolarità del velo che scende dal capo alle spalle sino a terra, dando alla figura un senso geometrico.

Continuando il nostro ideale giro alla ricerca di altre curiosità, troviamo una singolare immagine della Vergine, che si trova nella facciata prospiciente via Massimo D’Azeglio di casa Allaira.
Consiste in un  altorilievo datato 1707 e rappresenta il momento dell’assunzione in cielo: la Vergine con le braccia incrociate sul petto, si erge in posizione ieratica sopra una mezza-luna calpestando il serpente.
Questa rappresentazione non è molto comune e seguendo il filo del discorso precedente, secondo il quale le religioni continuano nelle successive civiltà, possiamo vedere che come le dee della fertilità ispirarono la rappresentazione iconografica della Madonna con Bambino, quella dell’Assunta può ricordare il culto di Diana, la dea romana che viene rappresentata tradizionalmente come la vergine lunare rappresentante delle forze della natura.
La presenza intrigante dello spicchio di luna su questo altorilievo aumenta il mio desiderio di saperne di più, così compiuta una piccola ricerca in merito su libri  che trattano l’argomento, ( Calmet “Des Divinitès” pag. 25)  scopro che anche i Galli popolo a noi vicino che in tempi molto antichi hanno popolato il Canavese, veneravano una figura equivalente a Diana, essa era Arduina dea eponima delle Ardenne.
Il culto misterico di Arduina perdurò fino al medioevo e uno dei centri di culto era la città di Lunèville.
Un’altra designazione di Arduina era di “Diana delle Ardenne”. Il suo culto era lunare e le sue immagini portavano la falce di luna. Era considerata inoltre la protettrice delle fontane e delle sorgenti. Ancora nel 1304 la Chiesa promulgava statuti per vietare il culto della dea pagana.

Possiamo supporre che chi anticamente introdusse nella rappresentazione dell’Assunta lo spicchio di luna calpestato dai suoi piedi,  unitamente al serpente (simbolo del male) volesse ricordare ai fedeli il trionfo e la supremazia della nuova religione su quelle più antiche? Chissà!
Mi rendo conto di aver sconfinato in un terreno insidioso e il lettore mi perdonerà queste divagazioni che hanno come unico scopo quello di stimolare la curiosità e di invitare ad osservare  le “cose al di là di ciò che appaiono” e non certo quello di esprimere giudizi di merito che lasciamo agli studiosi.
Resta il problema, questo si reale e concreto, di conservare queste pitture murali e piloni votivi da un lento ma inesorabile degrado, salvaguardando questo importante aspetto della devozione popolare per tramandarle con il loro fascino, la loro arte e -perché no- con il loro mistero alle future generazioni




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sabato 12 marzo 2011

Ricordi castellamontesi di Mario Rigoni Stern


In occasione dell’incontro con Mario Rigoni Stern, avvenuto in Asiago il 30 ottobre 1999, filmai gli incontri e i racconti da lui fatti sul filo della memoria, alcuni dei quali stimolati dalle nostre domande.
Questo per conservarne una memoria  audiovisiva.
Ciò ha permesso di trascrivere fedelmente ciò che ci andava raccontando.
La parte di seguito riportata è quella che più riguarda Castellamonte,  in parte già citata dal Rigoni Stern in alcuni suoi libri e articoli.
Il mio intervento è stato solo quello di radunarli e di riordinarli secondo il loro sviluppo cronologico. Ne è venuto fuori un piccolo racconto che spero i nostri concittadini apprezzeranno.

                                                                                                   Emilio  Champagne
 


Mario Rigoni  Stern                 RICORDI      CASTELLAMONTESI           


Il mio rapporto con la vostra terra va molto indietro nel tempo,  a quando nel 1938 mi arruolai volontario alla scuola militare di alpinismo  di Aosta  per diventare maestro di sci e guida alpina.
Avevo poco più di 17 anni e fu un’esperienza importante che mi portò a conoscere ed amare le vostre montagne. Ricordo la prima ascensione invernale del Gran Paradiso nel febbraio del ‘39 effettuata con i miei commilitoni con gli sci lo zaino affardellato e il fucile mitragliatore a tracolla. Poi tante cime  e passi  nella  alta valle dell’Orco e Valle d’Aosta.
Fu proprio lì che nel settembre del 1939 fui dal Comando inviato come istruttore  presso il 6° alpini  stanziato in Canavese  con sede a Castellamonte.
Al mio arrivo, dopo stagioni e inverni passati in alta quota, i colli di Castellamonte e del Canavese mi sembravano una solatia riviera.
A Castellamonte eravamo accasermati in un edificio che era stato utilizzato da un pastificio per far seccare la pasta; era posto dietro  il ristorante “Tre Re”, vicino ad un rivo.
Il quel luogo la disciplina della caserma era dimenticata, la nostra maniera di vivere aveva un aspetto paesano più che militare. Ricordo però che a Castellamonte  il vitto che ci passava l’esercito era veramente poco, non  so  se ciò era dovuto al gran numero di soldati,   a inefficienza o cosa altro, ma si faceva la fame  e ci si arrangiava  a raccogliere castagne vecchie  su per le colline  o quando cominciava a spuntare il radicchio selvatico, (la cicoria), la raccoglievamo  per fare delle insalate con cipolle.
 A parte le manovre tattiche che facevamo una volta alla settimana, persino la marcia del venerdì e le esercitazioni in roccia che facevamo in una cava abbandonata di Vistrorio avevano assunto un aspetto famigliare, perché durante il tragitto si incontrava sempre gente che ci salutava cordialmente e nella palestra di roccia ci facevano visita i contadini che sospendevano di legare le viti per vedere e commentare le nostre discese  a corda doppia.
La marcia del venerdì non era la fatidica e faticosa camminata con lo zaino affardellato di ogni cosa; il nostro capitano era un richiamato, un tipo un po’ “matto” e soprattutto non pignolo da controllare il peso dello zaino a lui bastava l’apparenza. Quando ci guidava nelle marce su per le vostre colline dalle strade tortuose camminava sempre davanti con un passo velocissimo, mentre noi andavamo ad un’andatura normale. Ogni tanto si voltava e non trovando il reparto  si sedeva e aspettava poi riprendeva spedito e lo si ritrovava  più avant,  magari appoggiato ad un palo della vigna che parlava con una contadina intenta nei lavori.
Quando si trovava un’osteria entravamo, noi  avevamo pochi soldi e allora lui diceva “se un alpino  paga un bicchiere  di vino, il comandante ne offre 2 litri” e ci offriva da bere.

Un giorno venendo giù da Cuorgnè sullo stradone , poco prima di Castellamonte trovammo per strada degli allievi dell’accademia ...penso di Pinerolo. Quando questi videro  il nostro reparto arrivare, come da dovere si schierarono sul present-arm e noi sfilammo davanti loro sotto una pioggia battente.
Ricevuti gli onori, il gaio comandante ordinò l’alt e zaino a terra ; ci fece spogliare a torso nudo e sempre sotto la pioggia scrosciante, ricaricare lo zaino in spalla, dietrofront e risfilare davanti agli allievi allibiti, per avere ancora gli onori. Poi arrivati a Castellamonte offrì di tasca sua nuovamente del vino a tutti.
Ogni giorno c’era un episodio buffo o allegro  o nelle osterie o negli accantonamenti o sui balli a palchetto; tutto questo era forse dovuto alla nostra inconscia giovinezza che viveva l’ultima primavera di pace prima dell’orrendo massacro della guerra.

A maggio del 1940 ricevetti l’ordine di andare a Campiglia in Val Soana per fare l’istruttore di roccia. Ebbene vi dico, io ho avuto molti momenti felici nella mia vita, ma forse quei giorni passati a Campiglia sono stati i più belli.
Lì,  il pane arrivava da Valprato, il nostro mulo andava giù a prenderlo, era un pane fragrante, gustoso, a forma di micche basse, ....un pane che si scioglieva nella bocca ed era anche abbondante: un Kg a testa.
A Campiglia gli uomini erano pochi , erano a  militare o a lavorare, erano rimasti le donne, il parroco , due guardie parco e  molti bambini.
Alla sera ci radunavamo nella piazzetta del monumento e noi con le corde da roccia facevamo giocare i bambini, poi il parroco suonava le campane e via tutti a recitare il rosario e poi usciti dalla chiesa tutti in osteria e in osteria alla domenica veniva Giuvanindla fisa . Era  già anziano e bisognava che uno di noi andasse giù a Pont per portargli su la fisarmonica.
Giuvanin suonava e noi ballavamo. Io non ero un gran ballerino e con gli scarponi chiodati ho levato un’unghia alla maestrina del paese. Potete immaginare come fui mortificato e non ballai più. Il mio compito fu allora quello di procurare pane e formaggio e versare da bere a Giuvanin ‘dla fisa  che suonava.
Mi accorsi però che qualcosa non andava: gli riempivo il bicchiere e dopo un attimo era vuoto, lo riempivo e lo ritrovavo immediatamente vuoto. Allora lo tenni d’occhio e vidi  che Giuvanin ‘dla fisa  sotto la giacca teneva una bottiglia con un piccolo imbuto, beveva metà bicchiere e non visto, l’altra metà  la versava nella bottiglia,  per farsi la scorta a casa.

Quando ero libero dal corso di roccia andavo su al Pian della Azaria , per me quel luogo è sempre stato il più bello del mondo: i prati fioriti, il torrente  ricco di trote e i camosci  che avevano da poco partorito  con  i piccoli che scivolavano sulle chiazze di neve dei pendii... e poi c’era la maestrina..... un luogo bellissimo tanto è vero che quando mi trovavo prigioniero in Germania o nelle montagne dell’Albania o nella steppa Russa per consolarmi e per cambiare dalla mia mente il paesaggio pensavo al pian della Azaria.
Anche durante la ritirata di Russia nei momenti di maggior sconforto pensavo che lassù in Val Soana c’era il pian dell’Azaria che rappresentava per me un luogo della memoria, un vero paradiso terrestre.
All’ora avevo 18 anni, ero innamorato, il paesaggio così bello e facevo roccia con i miei amici.....ero veramente felice.
Andavamo a S. Besso e il grande sasso al quale è addossata la chiesa era la nostra palestra. Il nostro gioco era arrampicarsi sino in cima dove c’è la cappelletta.

Ricordando questo però ricordo anche tanti compagni che non sono più tornati a casa: a questo corso di rocciatori alpini eravamo una sessantina. Tra l’Albania, la Russia e la prigionia siamo ritornati vivi in tre.
Il primo a morire fu già lì a Campiglia, si chiamava Paglia, ritornando da S.Besso scivolava allegramente sull’erba, cantava, ma era troppo felice e non si accorse che c’era un dirupo, non si fermò più e si sfracellò.
Lo portammo nella chiesa di Campiglia e lo coprimmo di fiori, tutti venivano a trovarlo e noi lo vegliammo sino a quando arrivarono i genitori e lo portarono al paese.

Uno di quelli che sopravvissero lo incontrai durante la ritirata di Russia, era finito in un altro battaglione ed era tempo che non lo vedevo  e un giorno camminando sulla neve dopo la battaglia di Nikholaevka mi sento chiamare; era lui, uno dei ragazzi  con cui arrampicavo a S. Besso e insieme  ci salvammo.
Molti anni dopo la guerra,  scrissi un articolo per “La Stampa” ricordando il Canavese  e in seguito ricevetti una lettera: era la maestrina di Campiglia, a cui avevo levato un unghia al ballo e  diceva: ... Sig.Rigoni, lei forse non si ricorda, ma ero io la maestrina,  mi ricordo di voi, di quanto bene ci volevamo, di quei giorni felici.....
Certo, ricordo anch’io quei giorni felici, però giorni felici prima della bufera.
Capita ogni tanto di avere uno sprazzo di felicità prima della tragedia.....ma poi venne la tragedia.
Nei primissimi giorni di giugno del 1940 la guerra con la Francia era ormai nell’aria e ricevemmo l’ordine di scendere a Castellamonte.
Passarono pochi giorni  e arrivò un telegramma che ci ordinò di partire per la Valle di Aosta.
Gli ultimi ricordi di Castellamonte furono le tiepide  serate dei primi di giugno, piene di rondini che volavano attorno alla chiesa e alla sua rotonda...non ne avevo mai viste tante.
Il giorno della partenza lasciai le mie cose e l’indirizzo  ad una signora che abitava lì vicino al ponticello sul rivo, e lei me le inviò a casa, con dentro al pacco anche le poche lire che le avevo lasciato per le spese postali.
Venne la partenza  e zaino in spalla, a piedi, abbiamo percorso la strada verso Ivrea con le ragazze che ci accompagnavano lungo la strada piangendo e gettandoci i fiori.
Ricordo che attraversammo Ivrea e poi su in Val di Aosta.
Eravamo accampati in un bosco di Aymavilles quando fu dichiarata la guerra.
Era il 10 giugno del 1940, ricordo che giocavamo alla morra quando un alpino che era andato a comprare due gavette di vino ritornò e disse: Mussolini ha dichiarato la guerra, per l’Italia gridano tutti come matti”
Tra noi venne un gran silenzio e venne anche un sergente e un sottotenente, tutti e due poi caduti in Russia e dissero “Spegnete il fuoco, pisciateci sopra e state zitti: siamo in guerra.”  
Ma state tranquilli che fra noi lassù nessuno gridava.


Da quel giorno iniziarono 5 anni di tragedie.  Dopo la primavera canavesana  vennero le notti di veglia sui desolati monti dell’Albania e il parlare sussurrato accanto al fuoco rievocava i paesi, le ragazze, le osterie e il ricordo allontanava la miseria di quella realtà.
E in Russia quando un compagno riceveva una lettera da Castellamonte o da Rueglio, o da Valperga era come se un soffio d’amore ci portasse in quella terra e volevamo sapere le novità, come se quelli fossero i nostri paesi.
Forse molti compagni  sono morti in quelle bufere con l’immagine  di una ragazza, di un festoso sabato, di una stradina tra le vigne, di una bottiglia di vino.
E anche nelle baracche i sopravvissuti a quegli inverni, rievocavano le calde stalle ospitali del Canavese e i tetti delle cascine sparse dove i contadini in cambio di qualche nostro servizio campagnolo,  offrivano polenta e tomini al nostro giovane appetito.

Dopo 42 anni  ho voluto tornare in Canavese . Parlando con la gente ho potuto capire quanto vivo ancora è il nostro ricordo.
Ma a Campiglia Val Soana, non c’è più la maestrina, non c’è più la scuola, non c’è il parroco e  sono rimasti davvero in pochi.
Sono arrivato a Castellamonte e sono andato a mangiare ai “ Tre Re” dove una volta ci andava a mangiare il Colonnello e adesso ci andavo io.
Domandai al figlio del vecchio proprietario che conoscevo, se esisteva  ancora il vecchio pastificio dove eravamo accantonati; mi disse di sì e gentilmente mi accompagnò.
Passato il ponticello sul rivo mi ritrovai nel cortile del rancio e dell’adunata.
Volli entrare , in quelle camerate tutti avevano lasciato un pensiero, uno scritto, un nome, un cuore trafitto, cose del genere.
Sono entrato nell’edificio, ma i muri erano stati imbiancati da poco, più nessun nome, nessuna frase si poteva leggere; ma in quel momento  ho ritrovato i visi, i nomi e i ricordi; come quello di un alpino  che una domenica, essendo di corvè, venne da me, che quel giorno ero caporale di giornata, dicendomi che aveva un appuntamento con una ragazza di Baldissero e che se avesse lavato le marmitte, pulito il cortile e spaccato la legna, l’appuntamento sarebbe sfumato.
Come potevo proibirgli per esigenze di servizio di non andare ad un ballo paesano in una sera di aprile?
Ritornò all’alba poco prima della sveglia e non successe nulla al nostro esercito, ma per lui forse, quella fu  la notte più  felice , perché il 26 gennaio del 1943 lasciò la vita sul terrapieno della ferrovia di Nkholaevka.

Vedete quanti ricordi mi legano alla vostra terra, io penso che tutti quelli che erano dalle vostre parti  in quel periodo che precedeva la guerra, che hanno visto le vostre montagne, ovunque vadano  le portano  sempre dentro di sè.

Tenetevi care le vostre montagne, tenetevi care le vostre pezzate rosse, le tome che sono sempre squisite.
Tenetevi care le vostre montagne e difendetele!
Questo è il mio augurio e grazie per questa visita ad Asiago, per il vostro saluto che mi portate.... e portate il mio saluto  alla vostra terra.
Ero  un ragazzo allora, che camminava su di là come un camoscio, ora sono un vecchio che va piano, ma io ho nel cuore le vostre montagne.

Portateci il mio saluto!
















UNA COPPA IN TERRA ROSSA DI CASTELLAMONTE A MARIO RIGONI STERN
GRANDE AMICO DEL CANAVESE.


Nel 1939, in previsione di un probabile conflitto con la Francia, l’Italia iniziò a rafforzare le sue frontiere occidentali.
Una moltitudine di soldati venne schierata dal mare al Monte Bianco fortificando i confini e intasando i fondovalle e i paesi delle prealpi.
Anche il Canavese, che condivide con la Francia un pezzo di confine, venne coinvolto.
A Castellamonte arrivò così il 6° alpini; centinaia di giovani in maggioranza Veneti, furono, come recita il gergo militare, accantonati  nel concentrico, nelle frazioni e nei paesi vicini.
Uno di questi accantonamenti era posto dietro il ristorante “Tre Re “, oltre il rivo S.Pietro e sino a poco tempo fa esisteva ancora l’edificio che prima della venuta dei militari era utilizzato da un pastificio.
Questi giovani perlopiù ventenni appena arruolati, trascorsero nella nostra città i mesi che precedettero lo scoppio della guerra, trascorrendoli con l’allegria e l’esuberanza della gioventù, ma anche con le preoccupazioni per un imminente conflitto che li avrebbe travolti.
Tra questi giovani che affollavano l’ex pastificio vicino al rio S.Pietro, vi era anche un giovane di Asiago di nome Mario Rigoni Stern, che dopo aver combattuto sul fronte francese, in Albania e in Russia, riuscendo a sopravvivere alla drammatica ritirata, diventerà un affermato scrittore e testimone diretto delle sofferenze e dei drammi patiti dai nostri soldati durante la seconda guerra mondiale. Su questi temi ha scritto libri come
 “ Il sergente della neve “, (1952) “Quota Albania”, (1971)    “Ritorno sul Don” (1973.
Alla natura e alle tradizioni della sua terra ha dedicato “Il bosco degli urogalli” (1962) “Uomini boschi e Api” (1980) “Amori di confine e “Storia di Tonle”, tutti pubblicati da Einaudi. Attualmente collabora a “La Stampa”.
Durante il periodo trascorso a Castellamonte e in Canavese, che lui definisce ”uno sprazzo di felicità prima della tragedia” imparò ad amare la nostra terra e soprattutto le nostre montagne. Da noi trovò amicizia e solidarietà e visse i suoi primi amori.
I ricordi del Canavese gli ispirarono alcune tra le pagine più belle dei  suoi libri, ma soprattutto questa nostra terra non l’ha dimenticata e continua ad amarla.

Per questi motivi l’Associazione Amici del Gran Paradiso presieduta dal giornalista Guido Novaria de “La Stampa” questo anno ha conferito il premio della coppa dell’amicizia creata dal ceramista Marco Schioppetti con la terra rossa do Castellamonte a Mario Rigoni Stern con la seguente motivazione:
A Mario Rigoni Stern “Sergente della Neve””, che non ha mai dimenticato le montagne del Canavese e del Gran Paradiso e che ha saputo in tutti i sui libri, fare della montagna e della sua gente i protagonisti di una civiltà che non vuole e non deve appartenere al mondo dei vinti”.

Alla consegna del premio,  avvenuta ad Asiago il 30 ottobre 1999, ha partecipato una nutrita delegazione di canavesani, tra i quali il sottoscritto. Ho avuto  modo così, di vivere un’esperienza interessante e di ascoltare non solo l’apprezzato scrittore, ma soprattutto una persona davvero eccezionale, che parlava con emozione della mia città e della mia terra.
Ancora prima della premiazione, quando Rigoni Stern ha visto il dono e senza che nessuno ne avesse parlato prima, disse, indicando la coppa con l’indice:
“ Quella la riconosco, è fatta con la terra rossa di Castellamonte...è di un colore inconfondibile” e così si parlò anche della nostra ceramica e delle nostre stufe.


Sono stati tanti gli avvenimenti degni di nota; non voglio però fare una cronaca, ma una riflessione:
la consegna ufficiale del premio è avvenuta nella sede della Reggenza dei Sette Comuni che compongono la Comunità dell’Altipiano di Asiago, erano presenti autorità e quasi tutti i suoi sindaci. Questo oltre ad affermare l’affetto per lo scrittore che rappresenta la cultura e le tradizioni della loro terra è stata anche verso di noi una dimostrazione della cultura dell’accoglienza che hanno le genti dell’altipiano di Asiago.
In quella sala gremita pensavo a quale accoglienza saremmo stati capaci  di offrire noi, e quanti sindaci sarebbero stati presenti se il tutto si fosse svolto dalle nostre parti.
Bisogna riconoscere il merito del successo dell’iniziativa anche all’Associazione Amici del Gran Paradiso per la sua attività di promozione e valorizzazione delle nostre montagne, che senza troppi clamori si è concretizzata in numerose iniziative come il ripristino, con l’aiuto delle Brigate Alpine, degli antichi sentieri di caccia, l’apertura di una biblioteca a Ceresole e la collaborazione per la riuscita della trasmissione televisiva ”Linea Verde” realizzata dalla Rai e recentemente  messa in onda.
La cultura aiuta a conoscersi. Nel nostro viaggio ad Asiago abbiamo apprezzato il loro paesaggio, la loro organizzazione turistica e le loro tradizioni; dall’altra parte si è parlato del Canavese, delle sue attrattiva e delle sue attività in una zona ad alta vocazione turistica.
Penso che il bilancio sia positivo sotto tutti i punti di vista.

                                                                 
                                                                                              Emilio  Champagne


































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CHABERTON: la montagna fortificata

Emilio Champagne: t esto per sceneggiatura video La montagna fortificata


Nel 1882  l’Italia, aderendo alla triplice alleanza, stringe un patto militare con la Germania e l’Austria. A conseguenza di ciò, si rese necessario fortificare tutto il confine occidentale con la Francia dal mare al Monte Bianco.
Negli anni che seguirono il trattato, assistiamo ad una proliferazione di fortezze militari sui due versanti dell’arco alpino. Nella sola Val di Susa, la più aperta ad una penetrazione da occidente se ne contano più di una trentina.
Gli anni della triplice alleanza furono anche anni, che videro un rapido sviluppo delle tecniche e delle tecnologie militari. Nel campo delle artiglierie l’aumento della gittata e della potenza delle bocche da fuoco resero praticamente superate le vecchie fortezze in pietra dei secoli scorsi. Assistiamo perciò nell’edificazione di nuove fortezze una ricerca di siti il più elevati  possibili in modo da sfuggire ai tiri dell’artiglieria nemica e in modo di aumentarne la gittata del proprio.
In questo contesto nasce in Italia il “progetto Chaberton” che porterà alla costruzione di una grande fortezza in cima all’ononima montagna strategicamente posta vicino ai confini con la Francia.
Costruita a prezzo di enormi sacrifici e su un terreno veramente proibitivo, questa grande opera sulla vetta dello Chaberton a 3100 Mt sarà anche un’opera  di ingegneria formidabile.
Per molti anni considerata invincibile, la fortezza dello Chaberton divenne un simbolo  della potenza militare dell’Italia fascista.
La sua fu una storia gloriosa,  che però finirà in tragedia il 21 giugno 1940,  quando i mortai francesi riuscirono a distruggere la fortezza e con essa anche il suo mito.
Una storia emblematica quella del forte dello Chaberton, che induce ad una riflessione sul dramma vissuto dall’Italia nella 2 guerra mondiale.




Lo Chaberton è una possente montagna calcarea di 3100 mt di forma piramidale.
Situata fra i colli del Monginevro e del Sestrieres  i sui fianchi strapiombano  sugli abitati di Cesana e di Claviers. Chi abbia percorso anche una sola volta la statale del Monginevro per recarsi in Francia non può non averne notato la sua mole. Man mano che si procede verso Claviers la vetta appare nitida tanto da poter individuare senza difficoltà otto caratteristiche torri che si trovano sulla sommità spianata della montagna. Sono le torri che sorreggevano i cannoni, ed è la parte più appariscente ed enigmatica del forte. Questo forte fu avvolto dal segreto sin dalla sua costruzione e al tempo, nessuna guida o pubblicazione faceva riferimento ad essa e le cartine della zona erano irreperibili. Ciò contribuì ad alimentare il timore ed il mistero attorno ad esso.
Prima di iniziare l’edificazione del forte fu necessario costruire una strada che raggiungesse la cima garantendo i collegamenti con il fondo valle.
Da questa ripresa aerea possiamo individuarne il tortuoso tracciato, che raggiunge la cima.
Nel 1898 terminata la strada, la sommità prospiciente il versante francese venne spianata  mentre su quello italiano venne creato un gradino alto 12 MT alla cui base venne ricavato un ampio piazzale su cui sarà edificato il forte. Nell’edificio che formerà la sua base troveranno posto le camerate, i magazzini, i servizi ecc. Questi locali saranno collegati da due corridoi, uno dei quali portava alla base della parete rocciosa, dove si accedeva alla parte più protetta del forte e nella quale si trovavano  gli esplosivi. Sul tetto dell’edificio sorsero otto torri cilindriche, che sorreggendo i cannoni li portavano a superare il gradino di roccia .
 Questa particolare scelta costruttiva rendeva il forte invisibile del versante francese, e c come si può vedere da questa foto la migliore difesa del forte era data dalla sua configurazione naturale: una cima sfuggente a lama di coltello  e di gran lunga più alta delle cime che la circondano.
Terminato il forte si impose la scelta del cannone più approppriato. Scartata l’ipotesi di un cannone costruito dalla casa inglese Angstom,  che qui vediamo riprodotto, si decise si decise per un cannone italiano dal diametro di 149 mm e dalla lunghezza della canna di oltre 5 mt. Il cannone dal peso di oltre 4 ton. aveva una gittata di più di 17 km a seconda della carica che veniva impiegata. Tramite dei meccanismi demoltiplicatori,  essi potevano ruotare di 360 gradi impiegando la forza di un solo uomo.
Le aspettative della casa inglese non andarono però  completamente deluse, in quanto essa fornì la cupola in acciaio posta a protezione dei cannoni e che aveva  come unico scopo la  difesa gli uomini dalle intemperie in quanto il suo  spessore di 2 cm non poteva garantire molto di più.
D’altra parte, nel progetto originale non era contemplata la possibilità di subire un bombardamento e questo in virtù delle sue difese naturali .
Per i collegamenti rapidi il forte disponeva di una teleferica molto ardita che superava un dislivelli di 1800 mt, anche se la sua posizione la rendeva particolarmente esposta ai tiri del nemico.
Per trasportare i cannoni sulla vetta fu però necessario usare la strada sterrata che da Fenils, raggiungeva la cima dopo 14 km di tornanti.
Nell’estate del 1906, i cannoni montati su robusti carri trainati da cavalli iniziarono il loro lento viaggio verso la fortezza che raggiunsero con immane sforzo  8 giorni dopo.
Con l’arrivo dei cannoni sulla vetta, il forte dello Chaberton si poteva dire ultimato e poteva ostentare tutta la sua minacciosa potenza.
In questa foto vediamo il forte completato e le 8 torri cannoniere,  rivolte in periodo di pace verso il territorio italiano.
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Oltre alle strutture visibili, altre gallerie e locali sotterranei per un volume totale di 1300 mc completavano l’opera.
La parte sotterranea scavate nel ventre della montagna fu l’unica del complesso fortificatorio che effettivamente svolse il compito per la quale era stata concepita e superò la micidiale prova del fuoco a cui venne sottoposta dalla artiglieria francese nel giugno 1940.
Schematicamente questa opera sotterranea consisteva in una scala lunga 72 mt che conduceva ad ampi locali adibiti a deposito di esplosivi che erano posti a 34 mt sotto il forte.
In questi locali si procedeva al caricamento delle ogive e all’ avvitamento delle spolette  proiettili così preparati venivano poi trasportati in superficie da un montacarichi montato su di una rotaia che correva lungo la scala. Mosso da motori elettrici dette però scarsi risultati in quanto il gelo bloccava i meccanismi e così come si verifico nei momenti cruciali del combattimento, le munizioni dovettero essere trasportate a braccia dagli artiglieri.

Il progredire dell’artiglieria e soprattutto l’aumentata precisione di tiro dei mortai, avevano sempre più insidiato le difese del forte sullo Chaberton
.Questa consapevolezza sollecitò lo stato maggiore italiano a richiedere l’incavernamento di tutta l’opera, ma i progetti restarono sulla carta.
Nonostante il forte avesse perso la sua invulnerabilità il forte incuteva ancora paura e rispetto, tanto che durante le manovre militari i sui spari sollevavano numerose proteste diplomatiche da parte francese.
Durante quel periodo fu coniato anche un detto che venne riportato su un cartellone posto all’ingresso del forte e che a grandi lettere diceva:” Lo Chaberton spara, Parigi trema”
L’indispensabile cortina di sicurezza contro attacchi e infiltrazioni era garantita dalla configurazione del suolo e da un ampio reticolato di oltre 400 mt che sbarrava il passo nei luoghi più accessibili.
Dietro i reticolati nidi di mitragliatrici  dai ricoveri sotterranei battevano i versanti della montagna.
Ma questo non era tutto . La sicurezza delle opere in vetta era assicurata da una serie di opere minori  che discendevano i fianchi della montagna fino a fondo valle dove si trova la statale della Val di Susa che conduce al valico del Monginevro e quindi in Francia.
Da questa ripresa si può vedere il sistema difensivo che faceva dello Chaberton una vera montagna fortificata.  Sulla vetta la fortezza principale con il compito di sparare sulle lunghe distanze, mentre a 2195 mt di quota si trovava la batteria alta del Petit Valon che schierava 6 cannoni da 12 mm ospitava 100 uomini e 3 ufficiali. Qui vediamo in primo piano la polveriera e poco più in alto la caserma. Più in basso a 1880 mt di quota la batteria bassa con 4 cannoni da 12 mm e 40 uomini.
Queste due fortificazioni minori avevano il compito di battere le provenienze dal fondo valle e dai colli laterali ed erano collegate tra di loro da una mulattiera che da una parte raggiungeva la vetta e dall’altra scendeva sulla statale dove si trovava la caserma detta” delle barricate di Claviere”
.Questa  mulattiera è la via più rapida per la vetta dello Chaberton e costituisce ancora oggi un interessante itinerario storico e alpinistico.
Completava questo sistema difensivo il centro n°24,  una costruzione in caverna posta a pochi metri dalla statale dove dalle sue aperture i pezzi anticarro e le mitragliatrici controllavano direttamente il valico e l’abitato di Claviere. Inoltre a 1 km prima del valico dove ora si trova questo ponte in cemento durante l’ultima guerra  ve nera uno in ferro che comandato da una postazione in caverna interrompeva la strada o addirittura poteva essere distrutto da una carica di mine.
Con il completamento di tutte le opere difensive il forte divenne operativo, tutti i lavori si erano svolti nella massima segretezza basti pensare che  neppure i testi utilizzati negli istituti militari e nelle scuole di guerra contenevano descrizioni del forte. Anche le guide del Touring omisero rigorosamente tutta la zona non riportando i sentieri e le mulattiere che potevano condurre al forte.
Ma se gli italiani cercavano di custodire il segreto i francesi avevano ovvi motivi per scoprirlo, già durante i lavori, schiere di agenti francesi raccolsero più dati possibili e ne fotografarono le fasi di costruzione.
  Un giustificato allarme si diffuse su tutto il territorio che potenzialmente si trovava sotto la gittata dei cannoni, la cittadina di Briancon la più prossima al forte cominciò a vivere con quella spada di Damocle che rappresentava il forte. Varie interrogazioni e richieste di contromisure vennero inviate a Parigi dalle popolazioni allarmate e nelle ben protette casseforti dello Stato Maggiore francese i dossier sul nostro forte andava ingrossandosi di anno in anno.
 Dalle alture di Briancon, si vede benissimo la posizione strategica e quanto la città fosse militarmente  minacciata dallo Chaberton che vediamo sullo sfondo. Infatti arrivando dall’Italia il controllo di Briancon è necessario per imboccare a nord la valle che attraverso il colle Lauretel conduce a Grenoble e a sud la valle della Durance che conduce direttamente  ai porti di Marsiglia e del Mediterraneo.
La Francia però non era rimasta a guardare, tutto il versante alpino francese venne disseminato al pari di quello italiano,  di fortezze. La conca di Briancon era difesa da una serie di fortificazioni  che all’entrata in servizio del nostro forte sullo Chaberton necessitò di un urgente adeguamento alle mutate condizioni militari.
I francesi consapevoli di ciò, attuarono importanti lavori di ammodernamento i più importanti dei quali fu il trasferimento in caverne di quasi tutte le batterie di cannoni diventate vulnerabili ai tiri della artiglieria italiana.
Vediamo ora brevemente quali erano i forti che si contrapponevano allo Chaberton e contro i quali durante la seconda guerra ingaggerà un duello mortale.
Proprio dalla città di Briancon parte una strada sterrata che raggiunge i 2300 mt di quota dove in posizione strategica sorge il forte dell’Infernet. Costruito in pietra tagliata ne vediamo qui la bella facciata ed il piazzale posto in posizione riparata dai tiri provenienti dall’Italia.
Dalla sua posizione si domina il Monginevro e le valli francesi della Claree e della Durance.
Il forte durante il combattimento del giugno del 1940 fu sottoposto ad un intenso fuoco da parte del nostro Chaberton ma con scarsi risultati, essendo stati i cannoni trasferiti in caverna al sicuro dei colpi dell’artiglieria italiana.
Lo stesso forte dell’Infernet visto dal fronte italiano si presenta ben protetto e anche ben mimetizzato con il terreno circostante.
La strada militare dopo l’Infernet continua in quota sino al confine italiano.Ai piedi dell’Infernet si trovano i baraccamenti della Coucettes. In questo luogo alloggiavano le truppe francesi impiegate nelle fortificazioni e nel controllo dei colli. La strada prosegue ancora per qualche km sino a giungere a fort Gondrand. Il forte è posto sul largo colle che collega la Val Gimond discesa la quale si giunge in Italia e la Val Cerviers che conduce in Francia. Da questa posizione appare nitida e minacciosa la spianata dello Chaberton e doveva fare una certa impressione ai francesi il sapere che su quella nuda cima sorgeva il più potente forte italiano con i suoi cannoni spianati su di loro.
Per questo motivo anche i cannoni di fort Gondrand vennero incavernati diversi metri sotto terra in modo da sottrarli ai micidiali  colpi del nostro forte.
. Essendo il colle del Gondrand ampio e facilmente superabile dalla fanteria esso è percorso in tutta la sua larghezza da trinceramenti  e casamatte.
In questo luogo avvennero anche furiosi combattimenti tra i nostri alpini e i francesi e più tardi nel 1944-45 tra i partigiani italiani e francesi contro i tedeschi. Attualmente il forte non è abbandonato totalmente e rimane il presidio di un piccolo distaccamento di soldati francesi.
La strada militare francese prosegue ancora sino a raggiungere su di un promontorio roccioso il forte francese dello Janus il più  prossimo al confine italiano.
Posizionato in modo da controllare il valico del Monginevro anche questo forte era stato rimodernato e comprendeva due batterie in caverna di cui una con 4 pezzi da 95mm rivolti verso la Val Gimond e l’altra di due pezzi da 75 mm orientata a battere il colle del Monginevro.
Come abbiamo visto tutti questi forti francesi erano ristrutturati  e difesi dall’incavernamento delle loro artiglierie. Tuttavia la loro era una difesa passiva in quanto non potevano direttamente colpire  lo Chaberton, per  ragioni di balistica che vedremo in seguito.

La politica aggressiva portata avanti dal regime fascista portò i francesi a considerare come molto probabile l’eventualità di un conflitto con l’Italia  Per questo motivo negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale i francesi consci del pericolo rappresentato dal forte italiano dello Chaberton dedicarono studi ed esperimenti per approntare un’arma in grado di neutralizzare l’odiosissimo forte italiano.
Venne così scelto un mortaio da 280 mm fabbricato dalla ditta francese Snaider. Nel 1937 il comandante dell’artiglieria della conca di Briancon era il generale Andrè che affermava di aver fatto della distruzione dello Chaberton lo scopo essenziale della sua vita. Ottenuta nella più totale segretezza l’assegnazione di  4 di questi mortai, il suo reggimento ne approntò una batteria con uomini scelti, capaci e del luogo, quindi fortemente motivati.
Si svilupparono poi studi tecnici e tattici in grado di risolvere problemi di impiego di grande complessità come la gittata,  gli angoli di caduta e un sistema di osservazione in grado di guidare e correggere il tiro sull’obbiettivo.
Un impresa ai limiti dell’impossibile quella di colpire lo Chaberton, almeno per quei tempi, ma i francesi grazie alla loro bravura e ad una buona dose di fortuna ci riuscirono.

Con numerosi documenti ufficiali e con il diario dell’ottavo raggruppamento di artiglieria è stato possibile ricostruire cronologicamente gli ultimi giorni del forte e della sua guarnigione. Ne scaturisce così un emblematico esempio, dei drammi vissuti dai soldati italiani durante l’ultima guerra.
Ma rechiamoci su, in cima allo Chaberton,  per vedere per vedere cosa rimane oggi del forte e per ricostruire sul luogo i drammatici avvenimenti che lo videro protagonista.

Attualmente il forte dello Chaberton che fu il gioiello del nostro sistema difensivo alpino si trova nel più completo abbandono. Nel 1957 i cannoni e tutte le parti metalliche furono smantellate e recuperate. Visto di profilo le torri sono spoglie e prive dei cannoni che sorreggevano.
Una foto aerea ci fornisce una visione d’insieme del forte ripreso dal versante italiano: sono ben visibili la sommità spianata della montagna il fabbricato dei servizi su cui si ergevano le otto torri e l’edificio della teleferica. Nella ripresa ravvicinata vediamo le conseguenze del terribile bombardamento.
Ma torniamo indietro nel tempo.
 E il 10 giugno 1940 il giorno della dichiarazione di guerra.
In quel momento sono presenti al forte 320 uomini al comando del capitano Spartaco Bevilacqua.
All’interno del forte in questo corridoio ora invaso dai ghiacci è sistemata una radio.
Alle ore 17, nel silenzio più assoluto, i soldati ascoltano l’annuncio che viene dal noto balcone di piazza Venezia a Roma.
E la dichiarazione di guerra!
Fra quegli uomini vi è anche un canavesano, il sottotenente Pietro Chiezzi di S.Giorgio Cse, che è uno dei quattro comandanti di sezione sotto la cui responsabilità vi sono i cannoni della 7° e 8° torre .
Immediatamente i cannoni vengono rivolti verso la Francia. Nel corso della serata viene verificata ancora una volta l’efficienza delle armi. Gli artificieri iniziano lo spolettamento di un primo lotto  di  proiettili e approntano le cariche di lancio di previsto impiego.
Si attende in ogni momento l’ordine di sparare.
Da parte francese intanto, nella più completa segretezza, i mortai Snaider dello speciale reparto creato appositamente per distruggere lo Chaberton,  stanno raggiungendo il vallone di Cherveters a 4 km a sud-est di Briancon. Li comanda il tenente Miguet un artigliere di prim’ordine e vero specialista delle armi a tiro curvo.
In questa località attenderanno il momento propizio per intervenire.

Dal 10 sino al 15 giugno 1940, nonostante la dichiarazione di guerra tutta la zona di confine è tranquilla, il comandante dello Chaberton effettua un ultimo controllo sulle tavole di tiro che è stato necessario ricalcolare in quanto quelle fornite dallo Stato Maggiore erano quelle standar e non tenevano conto che i cannoni in cima allo Chaberton sono posti a 3150 mt di altitudine.
Una nebbia fitta avvolge la sommità della montagna aumentando fra gli uomini della guarnigione il senso  di isolamento.
Il 16 giugno, nel pomeriggio, il forte assiste ad un duello di artiglieria tra il forte italiano dello Jafferau sopra Bardonecchia e quello francese dell’Olive che vediamo nella foto a 8 km a nord di Briancon.
L’eccitazione allo Chaberton è al massimo, il comandante del forte chiede allo Stato Maggiore di intervenire, ma la richiesta non è accolta.  Il duello continua per tutto il giorno, verso le ore 16  riceve l’autorizzazione di sparare sul forte francese. L’intervento è immediato e dopo un rapido aggiustamento del tiro fa fuoco con tutte le otto torri.  L’azione sembra aver avuto effetto ,dopo 40 colpi il forte dell’Olive non farà più sentire la sua voce.
Alle ore 6 del 20 giugno,  le forze italiane sferrano l’attacco.
 Lo Chaberton interviene pesantemente in appoggio all’avanzata battendo i forti e i colli presidiati da batterie francesi.
Durante la giornata le richieste di intervento aumentano e sarà necessario spezzettare il fuoco su vari obbiettivi contemporaneamente.
Alla fine della giornata il bilancio sarà però deludente: le forse italiane sono avanzate di pochi metri ed a costo di numerose perdite, ma il peggio deve ancora venire, il dramma sta ormai per compiersi.

L’artiglieria francese,  pur molto attiva,  a 11 giorni dallo scoppio della guerra aveva completamente ignorato lo Chaberton  e le batterie di mortai Snaider posizionate qui,  in località Poet-Moran  non erano ancora state impiegate per non rilevarne la posizione.
Il capitano Miguet è impaziente di intervenire, ma si aspettano condizioni meteorologiche favorevoli,  che sono previste per il giorno dopo.

Giunge così l’alba del 21 giugno 1940. La giornata è serena,  la visibilità buona.
 La batteria di mortai francesi situati nella Val Cherveters è pronta per fare fuoco. Nessuno, da parte italiana, ne conosce l’esistenza e tanto meno la sua posizione.

Alle 8 viene impartito l’ordine di aprire il fuoco. Obbiettivo la distruzione dello Chaberton !
Dopo qualche tiro, la guarnigione allo Chaberton avverte un forte colpo nella roccia, nessuno sa  da dove questo colpo sia partito, ma tutti capiscono che i francesi stanno prendendo di mira il forte. Con il passare del tempo il capitano Miguet prosegue indisturbato l’aggiustamento e lo porta avanti con metodica progressione, sino a quando riesce a comprendere lo Chaberton, in una serie di colpi lunghi e colpi corti.
A quel punto sul forte tutti, dal comandante all’ultima recluta, hanno capito che i francesi stanno effettuando la difficile forcella e che ora, inevitabilmente, stringendo i colpi arriveranno sull’obbiettivo.
Ciò nonostante con lucida consapevolezza rimangono ognuno al loro posto e aumentano la celerità di tiro sino a surriscaldare le bocche da fuoco.
Intanto l’allarme scatta e negli alti comandi italiani ci si interroga da dove possono giungere quei colpi.
Si sospettano uno dei tanti forti francesi, ma nessuno sa dall’esistenza della batteria nei verdi prati di Poet-Morand.
Intanto il capitano Miguet con calma e al riparo del crinale della montagna, dove anche se individuati lo Chaberton non avrebbe mai potuto colpirli si appresta a raggiungere il suo obbiettivo.

Il forte è colpito, i francesi che con il binocolo seguono il bombardamento esultano.
Sono le ore 17.15 minuti., un tremendo colpo ha centrato in pieno la prima torre. Le schegge sono penetrate nella casamatta uccidendo un artigliere e ferendone altri.
Alle 17.30 un’altro schianto e la casamatta della quinta torre è completamente divelta dal basamento. Il corpo, orribilmente ustionato del capo pezzo viene scaraventato lontano. I morti sono quattro.
In un clima di esasperato impegno,  gli addetti sono ben consci del pericolo mortale che corrono.
 Si organizzano i turni di permanenza sulle torri:  mezz’ora ha sparare e un ora al riparo nelle caverne, come in una roulette  russa ! A chi tocca,  tocca!
Gli elevatori per i proiettili sono inceppati è necessario perciò portarli su ai cannoni a forza di braccia.
Gli artiglieri percorrono con immane sforzo le ripide scale delle torri con il timore di non arrivare in cima.
Nel volgere di pochi minuti altre 4 torri vengono colpite e contemporaneamente è anche messa fuori uso la teleferica. Le linee elettriche e telefoniche sono interrotte, il collegamento con il fondo valle è mantenuto con difficoltà con le radio.
Per il forte è la catastrofe, l’intero presidio è nel caos. Paura,  dolore, e desiderio di vendetta sono i sentimenti che prevalgono.
Alle 20 finalmente i tiri cessano.
Una calma irreale regna al forte, lacerata solo dalle urla dei feriti.
In quella sera del 21 giugno del 1940 il dramma è compiuto e in un’atmosfera tesa, si fa il bilancio della giornata.
Il forte dello Chaberton, vanto e orgoglio dell’esercito italiano e per lungo tempo giudicato invulnerabile è ferito a morte.
I francesi con 57 colpi sparati in 3 ore e mezza l’hanno reso praticamente inservibile. Sei torri su otto sono distrutte, solo due la 7° e 8° con a capo il canavesano Piero Chiezzi non sono colpite, ma i gravi danni alle infrastrutture del forte ne hanno pregiudicato l’impiego. La teleferica troppo esposta in superficie è stata più volte colpita e le sue strutture annerite dagli esplosivi sono inservibili. Stessa sorte è capitata all’osservatorio.
In totale i morti saranno 10, più di 50 i feriti molti dei quali in modo grave.
Nei giorni seguenti si cercherà di riorganizzare il forte: le due torri superstiti spareranno ancora qualche colpo e l’intera guarnigione del forte  si impegnò solennemente, che nel caso le torri fossero state colpite, i superstiti si sarebbero arruolati volontari con un reparto di fanteria, per andare all’attacco delle posizioni francesi.
Questa volta però la fortuna fu dalla parte italiana. Una fitta coltre di nebbia impedirà ai francesi di portare a termine l’opera di distruzione.
Contro lo Chaberton i francesi riusciranno ancora, senza successo, a sparare 24 colpi prima delle fatidiche ore 1,35 del 25 giugno 1940, allorché cessarono le ostilità in applicazione dell’armistizio firmato qualche ora prima a Roma.
La sporca guerra fra l’Italia e la Francia era finita,  ma le sofferenze e le distruzioni appena cominciate.






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